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La ville est tranquille

Regia di Robert Guédiguian vedi scheda film

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La recensione su La ville est tranquille

di spopola
8 stelle

Potrebbe esistere Guédiguian senza Marsiglia? Probabilmente no, visto che è proprio da lì, da quelle radici che nasce l’humus più personale e sincero del suo cinema. E anche se poi negli ultimi anni il suo universo si è allargato portandolo ad esplorare altri, più vasti orizzonti (penso per esempio a Le passeggiate al campo di Marte e all’ultimo, denso, coraggioso, sincero L’armée du crime ancora inedito in Italia, ma che io ho avuto la fortuna di vedere nella rassegna fiorentina di France Odeon), sono legati a Marsiglia i risultati più significativamente pregnanti della sua carriera, e questo La ville est tranquille, rimane fra tutti forse quello che meglio  e più di altri racconta e rappresenta il rapporto viscerale, innamorato, sofferente, del regista con la sua città, anche se noi in Italia conosciamo soltanto una parte della sua opera ed è per questo sempre difficile (e un po’ azzardato) fare un bilancio oggettivamente esaustivo di un percorso e di una crescita, visto che ci mancano molti tasselli (soprattutto quelli relativi a ciò che è venuto dopo Le passeggiate al Campo di Marte) che ci aggiornino, tenendoci puntualmente informati,  sull’evoluzione in progress del suo lavoro.

Tornando al titolo in questione che ho avuto modo di rivedere proprio di recente apprezzandolo ancora di più di quanto non era accaduto al momento della programmazione in sala (correva l’anno 2000, se non erro, e probabilmente allora anche il mio posizionamento di pensiero era più propositivo di quanto non lo sia adesso, visto come nel frattempo stanno andando le cose),  è certamente un Guédiguian più duro e disperato di quello degli esordi  che ci troviamo di fronte questa volta, un Guédiguian che si è ormai lasciato alle spalle i sogni un po’ consolatori  (lasciatemeli definire così) che sembravano voler aprire il cuore alla speranza di titoli come Marcus et Jeannette In fondo al cuore, tanto per fare degli esempi concreti, per inserirsi più profondamente dentro gli squarci crudeli di una realtà degradata fatta di piccole e dimenticate vite di periferia, segnate dalla ritualità ripetitiva di un trascinamento praticamente senza scossoni e privo di prospettive, se non quelle apparentemente prioritarie di immaginare possibile una minimale ipotetica sopravvivenza “consolatoria” (gli “imperdibili”- si fa per dire - appuntamenti con gli “eventi televisivi”più pompati, le visite settimanali per i rifornimenti alimentari al mercato del pesce, o, in settori più emergenti e pretestuosi,  ma ancor più “squallidi” della miseria, gli eleganti incontri sociali “di facciata” per definire e concordare “affaristici intrallazzi”,  ambiguamente compromissori).

Lo stile di questo amaro reportage, è quasi documentaristico e lo sguardo impietoso della macchina da presa è focalizzato soprattutto sui “rifiuti e le sconfitte”  di esistenze “a perdere” , concentrato nella definizione contrapposta di psicologie “disomogenee”, quelle delle figure che animano questo parterre di “umiliati e offesi”,  fra sterili rapporti borghesi e inascoltate richieste di aiuto.

Il  cronista disilluso, “l’osservatore implacabile e feroce” di tante storie in parallelo (il Morandini lo definisce un luogo dell’anima, un racconto corale alla maniera di Altman) e degli avvenimenti narrati in apparente disordine fra passato e presente che le contrappuntato, è allora per molti versi un insolito Guédiguian molto più maturo e accorto, che accompagna lo spettatore con la sensibilità sofferente della conoscenza, nei quartieri dormitorio della città, dentro questo piccolo universo  di invisibili fallimenti e di instabili relazioni sacrificate e compresse (e al tempo stesso alimentate) dalla paura della solitudine e dell’abbandono amoroso, che qualche volta riescono persino a stemperarsi, a trovare qualche pausa falsamente rassicurante, dietro la  frastornante, caotica esuberanza esteriore fatta di luci e di colori, dei centri commerciali, dentro i quali è possibile persino annullarsi per qualche ora per smettere di pensare.

E’ il crocevia della vita, insomma questa pessimistica indagine di una realtà che sovrappone, fino a confonderli, lussuosi appartamenti e umidi locali fatiscenti, tradimenti amorosi (e non solo) e travolgenti passioni, disoccupati a vita e nuovi ricchi. Il tutto, filmato con la dignità e il pudore di chi osserva con preoccupata attenzione, “sa di che cosa parla” ed ha il coraggio di scrutare davvero fino in fondo le cose senza mai volgere lo sguardo da un’altra parte, non si lascia sopraffare dallo scetticismo della ragione, anche se ciò che gli si presenta  davanti è soprattutto delusione e debolezza:, uno spaesamento individuale e collettivo che non lascia scampo.

In questa incomunicabilità ormai generalizzata che si espande e prolifera, l’eroina può diventare allora a volte l’unica certezza acclarata, il denominatore comune  che si giustifica e trova persino un “senso di inevitabilità”,  necessaria  per lenire gli agitati sonni di esistenze così allo sbando, da aver smarrito persino i basilari punti cardinali di riferimento indispensabili per potersi per lo meno orientare dentro questo marasma ribollente. La città (una Marsiglia devastata sia sotto il profilo economico che sociale) è tranquilla, perché la sinistra dorme e LePen si fa largo (Mereghetti) e si avverte lo sdegno profondo per lo “scempio” perpetrato dentro e  sulle coscienze, di un regista idealista e militante come è appunto Guédiguian,  che non riesce ad intravedere una possibile ipotesi di  redenzione,  e non può essere per questo meno cinico o più “disponibile” al compromesso accomodante. Non è infatti né l’una né l’altra cosa con questo polifonico “romanzo cittadino” che affronta temi importanti e fondamentali per come stiamo vivendo adesso, quali la droga, il cinismo politico, la violenza, il razzismo e la caduta trasversale delle ideologie, e ce le racconta con un linguaggio semplice e diretto, senza mediazioni,  spesso  con la crudele immediatezza di intensi primi piani, quasi a voler catturare l’essenzialità cocente della sofferenza e del dolore, intrecciando e spezzettando i nuclei narrativi che si spostano costantemente da un polo all’altro, fra “venditori di morte” ed ex operai  diventati nel frattempo proprietari di taxi “che cantano a squarciagola  in tutte le lingue l’Internazionale, per allontanare la disperazione di chi ha smarrito le radici politiche e sociali in una città fotografata dall’alto nella sua alterata perfezione e dal basso nella sua straniante e drammatica imperscrutabilità” (Domenico Barone), ancora una volta  meravigliosamente coadiuvato dai suoi magnifici “attori feticcio”, e mettendo in primo piano dentro questo mosaico dai colori e dai sapori multietnici, il personaggio fondamentale della Mater dolorosa (la pescivendola Michélle che disperatamente tenta di salvare la figlia dalla droga) reso magistralmente da una strepitosa Ariane Ascaride e così preponderante e centrale, da sottrarre spazio vitale persino agli altri indiscussi protagonisti (penso per esempio a Gérard, spacciatore e sicario senza apparenti scrupoli ma schiacciato dai pesanti ricordi di un passato che si identifica in un presente segnato da quello che si definisce “le mal de vivre”, e del quale si avverte in certi momenti la necessità di “saperne di più” o alle contraddittorietà di Paul dal passato barricadero, ma che tradisce i compagni in sciopero accettando una buonuscita che gli consentirà di reinvestirla opportunisticamente nell’acquisto di un taxi).

E’ un film dunque di profonda riflessione critica, ma non c’è mai  nel regista la presunzione didascalica  di chi vuol salire in cattedra per esprimere un giudizio o dare una “lezione” e un insegnamento: lui, con il valore aggiunto della “verità”, stigmatizza semplicemente il disordine e il disorientamento di una società in sfacelo, abbandonata e disillusa come quella che stiamo attraversando,  con un cupo pessimismo di fondo, non solo per i baratri esistenziali individuali dei singoli percorsi e delle esperienze, ma anche per l’allarmante dimensione sociopolitica della cornice, che si conferma purtroppo adesso in continuo e progressivo disfacimento “dissolutorio”.

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