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Delitto sulla spiaggia

Regia di Joseph Pevney vedi scheda film

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La recensione su Delitto sulla spiaggia

di fixer
4 stelle

 

 

La Golem ha appena pubblicato nella collana Cineclub Mistery un film che è stato in programmazione sui vari canali tv nei decenni scorsi ma che ormai sembrava scomparso. Ragione di più per apprezzare questa uscita. Non si tratta di un gran film, diciamolo subito.

E’ il caso, prima di addentrarci nell’analisi, di ricordare forse la vera attrattiva del film e cioè la presenza di Joan Crawford e di Jeff Chandler. L’attrice era un mito, ma al tramonto. Tre anni prima, nel 1952, aveva chiesto lo scioglimento del contratto a Jack Warner, boss della Warner Bros. Lo ottenne e diventò così un’attrice free lance, pronta ad accettare ruoli che i vari studios le avessero proposto. Lei poteva farlo, anche se era insolito. Ma la Crawford era la Crawford, una delle attrici più grandi, una delle star più celebrate, sin dai tempi del massimo splendore alla MGM.

La storia del film nasce quando Albert Zugsmith, “producer” della Universal, che conosceva la Crawford, ebbe l’idea di offrirle il ruolo principale e cioè quello di Lynn Markham, una ricca vedova che si è appena trasferita in una splendida villa su una spiaggia californiana. Joan accettò, ma pretese che il suo partner, nel ruolo di Drummond Hall (che curiosamente nella versione italiana si chiama Jimmy), fosse uno degli attori più in voga alla Universal allora e cioè l’atletico (e brizzolato)Jeff Chandler. Jeff era un buon attore che, stranamente, si era imposto all’attenzione del pubblico per la sua splendida interpretazione del capo apache Kochise (o Kociss)(per le sue capacità recitative o per quelle fisiche?). Di certo, nel 1955 era al massimo del suo splendore e del suo vigore (a quel tempo aveva 37 anni) e il regista indulge forse un po’ troppo sul suo corpo scultoreo. Jeff, il cui vero nome era Ira Grossel, non ebbe la fortuna di vivere a lungo, visto che morì nel 1961 (dopo aver interpretato uno dei suoi film migliori e cioè L’URLO DELLA BATTAGLIA (Merrill’s Marauders di Sam Fuller) per un disgraziato caso di mala sanità, e cioè un’operazione chirurgica mal riuscita.

Il regista è Joseph Pevney, un “mestierante” capace di qualche buon risultato (L’UOMO DAI MILLE VOLTI), ma valido soprattutto per dirigere telefilm seriali (STAR TREK, JOHNNY STACCATO, IL VIRGINIANO, BONANZA  ecc.).

La sceneggiatura è tratta da un dramma di Robert Hill (co-sceneggiatore): non è memorabile sicuramente, anche se un paio di frasi della Crawford non sono da buttare.

Buono il tema musicale e anche la fotografia (di Charles Lang jr.).

La Universal, a quei tempi, stava a galla grazie alla fusione con la Decca Record Company nel 1952 e ad alcuni film come Là dove scende il fiume, La magnifica ossessione e The Glenn Miller Story. Nei piani di Zugsmith, questo film doveva essere un rilancio della Crawford, ma, in realtà, l’operazione non ebbe successo. L’anno prima, in JOHNNY GUITAR, nelle parti di Vienna, la Crawford aveva offerto un’interpretazione memorabile, piena di intensità, sorretta dal talento di Nicholas Ray. In questo film, invece, la Crawford, complici l’anonima direzione del regista e uno script mediocre, fa un po’ il verso a se stessa, risultando la sua interpretazione eccessiva, pretenziosa e artificiosa, come ebbe a commentare Bosley Crowther, critico del NYT.

La storia è abbastanza incredibile, soprattutto per il finale raffazzonato, ma anche per la relazione tra Chandler e la Crawford, poco naturale e molto costruita. Chandler è infatti in combutta con una strana coppia di anziani per truffare i nuovi vicini. La Crawford, pur consapevole delle losche intenzioni, non riesce a resistere alle capacità seduttive di Chandler, che, nel frattempo si è pure innamorato. Quando lei scopre che Chandler sta apparentemente tentando di provocare un incidente per farla fuori, il film dà una violenta sterzata: una  spasimante delusa (Ian Sterling)rivela a Chandler che ha architettato tutto lei, e cioè la morte della signora che abitava la villa in precedenza e il sabotaggio dell’imbarcazione che doveva portare Chandler e Crawford in viaggio di nozze. L’ha fatto per impedire a Chandler di avere una storia d’amore con altre donne.

Il clou, comunque, dell’intero film è rappresentato dalla relazione odio-amore fra la Crawford e Chandler. Lei non è più giovanissima (ha circa 50 anni, essendoci ancora dubbi riguardo al suo anno di nascita e cioè fra il 1904 e il 1908); egli invece ha 37 anni ed è nel pieno della sua vigorìa.

A tutti gli spettatori non sfugge che, nonostante la Crawford cerchi di dimostrare di avere dieci anni di meno, si tratta di un evidente tentativo da parte di Chandler di sedurre una donna non più giovane, senza altro scopo se non quello di divertirsi un po’. Poco a poco, diventa chiaro che gli scopi di Chandler sono altri e cioè sedurre la vedova per spillarle un po’ di soldi per lui e per la coppietta di simpatici truffatori con cui egli è in società.

Nelle mani di un abile sceneggiatore e di un buon regista, il film poteva essere un buono spunto per creare ottimi dialoghi e sviluppi un po’ più credibili. Qui, invece, la relazione appare squilibrata fin dall’inizio, proprio per l’evidente disequilibrio fra i due. E’ fin troppo chiaro che ella finirà per cadere nelle sue braccia ed è pure evidente che la Crawford sa perfettamente che Chandler non è che un volgare seduttore, un playboy che non fa che mostrare i suoi muscoli e si comporta in modo sfacciato, sicuro delle sue arti seduttive.

La psicologia qui è elementare se non inesistente. La ricca vedova attempata, dopo aver dato prova di avere cervello e nervi saldi, respingendo le “avances” del bellimbusto, cede in modo indecoroso, pur avendo la certezza (datale dalla lettura del diario scritto dalla donna che prima di lei abitava nella villa) di trovarsi di fronte a un mascalzone. Nella sceneggiatura mancano dialoghi e azioni che tratteggino in modo meno elementare la personalità dei due. E’ la fisicità di lui a fare la differenza. E’ il suo corpo, il suo fisico scultoreo a mettere in crisi le certezze della Crawford. Questo fatto elimina le sfumature, le linee di grigio, le battute argute, l’ironia che hanno fatto la fortuna di tanti buoni film americani.

Non c’è quindi la schermaglia verbale progressivamente più serrata che, di solito nei film di qualità, fa da preludio all’unione fra due personalità di diversa estrazione sociale e sensibilità. C’è invece una sorta di approccio animale nei confronti di una femmina che abdica alla sua razionalità di donna raffinata e che, malgrado l’evidenza, rinuncia a prendere in considerazione le tante spie rosse che indicano un chiaro segnale di pericolo. C’è quindi, da parte della sceneggiatura, una notevole superficialità nella raffigurazione dei rapporti personali.  

La Universal, in quegli anni, sfornava decine di produzioni come questa. I suoi mezzi economici non erano gran cosa, per cui si cercava di ottenere il massimo con il minimo. Purtroppo, nonostante registi come Anthony Mann e Douglas Sirk e attori del calibro di Jimmy Stewart, Jane Wyman e Rock Hudson, la casa non si distingueva certo per la qualità dei suoi prodotti, di cui questo è un eloquente esempio.

Nello stesso anno, la Crawford interpretò APE REGINA per la Columbia, ma nemmeno questo risultò memorabile. Molto più importante per la sua vita personale fu invece il matrimonio quell’anno con il presidente della Pepsi Cola Alfred Steele, che le assicurò una carriera imprenditoriale di un certo rilievo.

Vedere questi film, ormai introvabili, è comunque piacevole per diversi motivi. Anzitutto si apprezza la professionalità, una caratteristica che riesce a rendere accettabili film di scarsa ispirazione e poche ambizioni, come questo in esame.

In secondo luogo, è possibile valutare, col senno di poi, le capacità e il talento delle star di un tempo, in grado di elevare da sole il livello qualitativo del film.

Infine, è interessante notare la semplicità e il ritmo dei film anche di serie B, vera e propria fucina per i talenti a venire e laboratorio con il doppio scopo, da un lato di fare lavorare registi, attori e tecnici altrimenti disoccupati pur sotto contratto e, dall’altro, di valutare le potenzialità del personale stipendiato ma non ancora assurto alla notorietà e permettere, anche ai divi un po’ attempati, di spendere le loro ultime cartucce assicurando allo Studio ancora qualche risorsa economica e accontentando la fascia di pubblico ancora a loro affezionato (come in questo caso).

Quarto motivo, ma non ultimo, è la possibilità di rivedere film ormai introvabili, che, pur non essendo capolavori, offrono agli appassionati l’opportunità di scoprire aspetti, personaggi e storie che sono parte integrante dell’universo cinematografico come fabbrica di sogni ma anche ritratto, magari edulcorato, di una società che ormai non esiste più ma che continua ad alimentare illusioni e nostalgie.

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