Regia di Maya Forbes, Wallace Wolodarsky vedi scheda film
Un'altra storia di dipendenza dall'alcol, gli attori sono bravi, ma il film non decolla.
Hildy Good, è un agente immobiliare di successo, nella piccola comunità di Wendover, dove vive; tuttavia dopo il traumatico divorzio, il marito l'ha lasciata per un uomo, è caduta in depressione e ha preso la pessima abitudine, di cercare conforto nell’alcol, finché, persuasa dai familiari, si è fatta ricoverare in un centro di riabilitazione. Al rientro Hildy sembra guarita e intenzionata a recuperare il terreno perduto, cercando di riprendersi i clienti , che la sua ex collaboratrice, le ha subdolamente “soffiato”. E’ simpatica, cordiale e in carriera, ricomincia a frequentare di nuovo il suo storico fidanzato Frank Gretchell, che vive in una casupola in campagna, “ho bisogno di un anno positivo”, dice, circa i suoi proponimenti di vendita, ma in tale affermazione, si legge anche un’ implicita rassegnazione, il mercato immobiliare è cambiato ed è più ostico per lei, che intanto continua a prodigarsi per i suoi familiari, sostenendo le due figlie adulte e versando persino l’assegno di mantenimento all’ ex marito. Lo stress è però tanto, troppo da sopportare, lo anestetizza ricorrendo al suo antico vizio, perché in sostanza, al di là delle apparenze, è una persona fragile, insicura e soprattutto irrisolta. Dal voice-over che guida l'intera narrazione, ai continui sguardi di Sigourney Weaver, che si rivolge direttamente al pubblico, abbattendo la cosiddetta “quarta parete”, il regista, Thomas Bezucha ha inteso girare un film, dall’intento “educativo”, descrivendo una delle più dannose e peraltro diffusissime dipendenze, in cui spesso incappano i nostri contemporanei. Il titolo così ha un duplice significato, non soltanto la "casa buona" ossia quella che Hildy cerca di vendere, ma anche il suo habitat domestico,una "comfort - zone", in cui trova riparo una donna travagliata e tormentata dai propri demoni, che come spesso accade, nega la propria “malattia”; la cura può cominciare solo allorquando lei, ormai disperata, ammette di avere “un problema” che da sola non può risolvere. Il difetto principale del film è insito in un'eccessiva verbosità: in sostanza tante chiacchiere, ma fatti pochi, la storia a tratti gira a vuoto e perde colpi, si svolge anche un piccolo giallo, peraltro del tutto ininfluente ai fini del racconto. Lo spunto di interesse è dato unicamente dall'interpretazione maiuscola della famosa attrice e in quella altrettanto convincente di Kevin Kline, nel ruolo di comprimario partner romantico: l’alchimia tra loro funziona e tiene in piedi il narrato. Gli sceneggiatori Maya Forbes e Wallace Wolodarsky adattano il romanzo di Ann Leary scolasticamente, senza sforzarsi di compiere alcun guizzo di fantasia. Non ci sono elementi di novità, il cinema ha raccontato già tantissime altre volte queste storie.
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