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Manhunt

Regia di John Woo vedi scheda film

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John_Nada1975

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Manhunt

di John_Nada1975
4 stelle

Rifacimento di un superclassico del Maestro Jun'ya Sato con Ken Takakura e Yoshio Harada, "Manhunt"(Kimi yo fundo no kawioa o watare)(1976), il quale fu anche il primo film giapponese ad avere talmente tanto successo da uscire nella Repubblica Popolare cinese

Rispetto al modello Woo, e senza nemmeno sottrarre elementi e personaggi alla storia ma anzi aggiungerne, taglia il minutaggio dai 155' dell'originale, al minutaggio di un più canonico 109', anche poco per Woo e per il cinema asiatico in generale.

Woo stesso non ha perso lo smalto come molti hanno detto in occasione del recente "Silent Night"(che è il suo film migliore da almeno due decenni) -almeno nel cinema moderno e non nella "comfort zone" del ricco e sontuoso film in costume di "regime" della PRC- , ma qui invece è più che appannato, e confeziona un telefilmone noioso ed esteticamente ucciso da una brutta e pianta fotografia digitale iperdettagliata. Carica in alcuni passaggi della medesima padronanza e ipertroficamente ogni singola sequenza e quelle d'azione come suo precipuo stile ed estetismo, anche di più, ma senza creare interesse e partecipazione, anche perché ogni inquadratura dura due secondi o poco più. Oltretutto gli attori non hanno un grammo del carisma di quelli del film di Sato, nè la simpatia ed empatia che riuscivano a instaurare.

Manca però la complessità e anche rispetto allo stile barocco e iper caricato di romanticismo esasperato di Woo di cui qui su intravede solo uno spento involcro, manca una certa austerità, data anche da un attore essenziale e controllato come Takakura del primo film del maestro Sato, e cosa che più balza all'orecchio, manca una colonna sonora di assoluto valore come quella del 1976 di Hachirô Aoyama.

Talmente famosa che prima dei titoli il tema viene brevemente riarrangiato, ma poi per il resto siamo sui pochi battiti ovattati di pianoforte dolce, nello sterotipo delle colonne sonore un pò melense di molto cinema orientale, più adatta per un cartone animato da fighette, che per quello che vorrebbe essere un film importante e di una certa atmosfera di romanticismo.

Le scene d'azione sono sempre con quel quid in più che detta la riconoscibilità della straripante padronanza di Woo in ogni virtuismo e verticismo, di ripresa e angolazione, sotto ogni aspetto tecnico e di inventiva, come di alto artigianato, ma l'interesse è nullo poiché spesso sono distratte in divagazioni con trovate di effetti digitali-dissolvenze, flashbacks e flashforward, sdoppiamenti, saturazione in b/N con il solo rosso),e 

Il digitale immamcabile con qualche schizzo di sangue e colpo in arrivo leva e non di un l,'attrattiva, così come l'elemento di confusione sessuale dichiarato di alcuni personaggi femminili invincibili e che atterrano nelle lotte ogni uomo di 100 chili che le affronti, evidente dazio pagato ai tempi.

Evidente nel suo fallimento generale la appena abbozzata sequenza di inseguimento con le moto d'acqua nel canale. Sembrava promettere chissà che alla "Face/Off" pur resa assolutamente immateriale e senza alcuna presa e pathos da brutti effetti in CGI, viene frettolosamente risolta in pochissimi forse tre minuti oltretutto con un montaggio tarantolato. Alla fine, "Sezione narcotici"(Puppet in a Chain) del 1971, e "Amsterdamned" del 1988, con le loro sequenze di acrobazie acquatiche, gli fanno letteralmente il culo.

Gli attori, famosi nel cinema di Hong Kong e del Giappone, saranno bravi ma come detto non valgono un grammo di quelli del film originale.

Davvero troppo al di là di qualunque strutturale ''sospensione dell'incredibilità", la sequenza del sequestro del pullman con esplosivo e bambino in ostaggio, pure per un cinema da sempre di puro estetismo ed esagerazione fino all'eccesso, di Woo.

Brutta la assurda e che non c'è nè nel romanzo che nel film originale del 1976 -che tutti dovrebbero avere visto, maggiore capolavoro di Jun'ya Sato dopo il precedente "Bullet Train"-,  la unga parte nella ipertecnologica, fantascientifica industria farmaceutica con gli esperimenti sugli uomini resi combattenti, soldati industrittibili, che davvero non c'entra niente con quello che doveva essere il film, ed oltretutto ricorda per la piatta bruttezza dozzinale ed affastellarsi di dettagli scenografici buttati lì per un pubblico di bocca buona, "Paycheck" o "Blackjack", ovvero proprio i punto più bassi dei film di Woo. Effetti digitali davvero dozzinali che lo rendono noioso e persino, peccato ferale per un film battente bandiera giapponese, esteticamente simili uno di quei prodottindi Hong Kong di almeno 30 anni fa, in cui l'occhio vedeva una certa cialtroneria di scrittura, e sciatteria scenografica, da film del terzo mondo-seppure in crescita- da esportazione. Solo con evidenti soldi in più. 

In definitiva Woo è sempre stato regista che ha dato prova anche di America di un talento dalla forte personalità e specificità, ma anche diciamolo  esageratamente sopravvalutato dagli anni '90 soprattutto per altre prove, perché certi critici con il cinema asiatico in generale vi avevano/hanno trovato la classica "gallina d'oro"-esauriti gli studi praticamente per tutte le altre cinematografie- per libri, rassegne, incarichi statali, ricche e lauti prebende o onori, come fa fede questo, ridicolmente inserito-non so se addirittura in concorso- al Festival di Venezia 2017. 

Oltretutto se ben si guarda come certi festival specializzati, direttamente emanazione dell'istituto Confucio del Ministro della Cultura Cinese. Quindi il Governo, e magari pure i Servizi. Niente di meno che una opera di penetrazione culturale, ma qualcuno potrebbe dire "colonizzazione" incentivata ed esaltata da alcuni, come altri Imperi hanno fatto e stanno già facendo, da sett'anni.

Tutto questo perché è quasi impossibile parlare in certi termini entusiastici e acritici di un'opera spenta e fallimentare, senza personalità come questa, solo perché è cinese e in parte purtroppo giapponese, cinema storicamente di enorme superiorità.  A meno che.

 

John Nada

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