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L'ultima discesa

Regia di Scott Waugh vedi scheda film

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La recensione su L'ultima discesa

di scapigliato
8 stelle

Nei primi ventanni del nuovo secolo, il secolo delle ipertecnologie, della comunicazione social, della sovraesposizione, frammentazione, riproduzione di immagini e del bombardamento delle stesse, per non dire ovviamente delle identità virtuali che stanno annientando, o l’hanno già fatto, il contatto con il reale e la percezione del reale, in questa precisa contingenza storica, culturale e sociale sono stati prodotti, girati e distribuiti un numero impressionante di survival movie o più in generale, come li chiamo io, wilderness drama, in cui la natura selvaggia, la minaccia animale, la solitudine, la sopravvivenza e il corpo dell’uomo in un costante scontro/incontro con gli elementi naturali sono esistenti funzionali all’azione, temi principali della narrazione e motore narrativo, fulcro tematico e iconografico del racconto.

Il film di Scott Waugh va ad aggiungersi alla folta lista di questi titoli, esattamente nel filone survival, e più precisamente tra quelli ambientati in alta montagna dove la minaccia maggiore è il grande freddo. Pellicole recenti come Frozen (Adam Green, 2010), The Grey (Joe Carnahan, 2011), Into the White (Peter Naes, 2012) The Mountain Between Us (Hay-Habu Assad, 2017) e per certi aspetti anche Into the Wild (Sean Penn, 2007) e The Revenant (Alejandro González Iñárritu, 2015), rinfoltiscono un già buon nutrito corpus cinematografico di film di generi diversi, drammi, thriller, polizieschi, survival, horror, sci-fi, western, che nell’ambientazione glaciale, nordica o artica, dove montagne, freddo e neve sono gli agenti esterni che generano o amplificano il conflitto dell’azione, hanno trovato il loro scenario perfetto.

Josh Hartnett, all’alba dei quarantanni, interpreta un atleta professionista di hockey che cade nella spirale infame delle anfetamine e la sua costante ricerca di adrenalina ne peggiora la socialità e il lavoro. Tratto da una storia vera, quella di Eric LeMarque raccolta dall’atleta stesso in Crystal Clear (Delacorte Pr, 2009), il film colpisce soprattutto per l’ottima performance di Hartnett. Avvertiamo il suo stesso freddo, il suo stesso dolore, i suoi stessi conati di vomito. Un’interpretazione molto empatica che conferma la grandezza dell’attore americano, il suo uso misurato e sottrattivo delle espressioni e del gesto, ma sempre di grande presenza scenica. Tant’è che anche il nudo di Hartnett in mezzo alle nevi va letto come simbolo: l’uomo spoglio e denudato che ritrova il proprio vigore immerso nella wilderness, ululando come i lupi che lo perseguono. Quasi una regressione animale, un rito pagane che rafforza l’uomo nell’animo e nel fisico.

Complice una natura selvaggia e affascinante quanto inospitale e indifferente alla tragedia dell’atleta, a cui verranno amputate entrambe le gambe all’altezza del polpaccio, il film colpisce per la sua modulazione narrativa – la perdizione nella bufera, l’incontro notturno con un branco di lupi, la caduta nel lago ghiacciato, le prime crisi di fame e sete, l’effetto astinenza, il congelamento dei piedi – e per l’uso abbondante di primissimi piani che rendono giustizia alla bravura di Hartnett, oggi impegnato soprattutto off Hollywood.

L’unico sbaglio del film sono i flashback insertati qua e là durante la lotta per la sopravvivenza in cui il protagonista rivede i suoi fantasmi, il rapporto disfunzionale con il padre, l’amore incondizionato della madre, Mira Sorvino, la rabbia e la spocchia sportiva, il dramma della dipendenza dalla droga. Esattamente come in 127 Hours (Danny Boyle, 2010), questi inserti narrativi rallentano l’azione. Certo, approfondiscono il background del personaggio, ma sono spiegazioni inutili nell’economia di un survival o un wilderness drama in cui il minimalismo degli esistenti, l’esposizione continua dell’iconografia di base, l’assenza di interferenze narrative e quindi di inquinamento percettivo, sono alla base dell’efficacia della rappresentazione di questo preciso genere di film.

Bastava mandare Hartnett sulle piste fatto di anfetamine, lasciare che si perdesse nella bufera e poi proseguire nella sua avventura senza interromperne il flusso narrativo. Credo fortemente che la linearità di una storia, soprattutto quando la sua totale immersione nell’avventura è fondamentale per la riuscita empatica della vicenda, sia l’unica forma accettabile. Nessun flashback, nessuno stacco su altre linee narrative, ma una mdp interamente dedicata all’uomo solo nella wilderness.

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