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Jailbreak

Regia di Jimmy Henderson vedi scheda film

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La recensione su Jailbreak

di supadany
7 stelle

Far East Film Festival 19 – Udine.

Jailbreak è a tutti gli effetti il primo action movie cambogiano. Se questo aspetto può interessare solo relativamente, può essere più corroborante il parallelo con il capitolo numero uno dell’indonesiano The raid, divenuto nel frattempo un cult anche in Europa.

La polizia cambogiana, rinforzata dal francese Jean-Paul (Jean-Paul Ly), deve scortare in carcere Playboy (Savin Phillip), un malavitoso minacciato di morte per l’intenzione di vuotare il sacco, azione che porterebbe all’arresto immediato di Madame Butterfly (Celine Tran), leader carismatico delle Butterflies, una banda di donne spietate.

Proprio dentro la prigione dove è stato appena condotto, si scatena una violenta sommossa tutt’altro che casuale, con uno sparuto gruppo di poliziotti intenzionati a fare il loro lavoro fino all’ultimo respiro, tanti criminali, spesso in opposizione anche tra loro, dei veri pazzi affamati di carne umana, senza trascurare l’irruzione anche di un elemento usualmente estraneo all’ambiente: le donne.

 

scena

Jailbreak (2017): scena

 

Si legge Jailbreak ma si pronuncia The raid. Difatti, tra i due film sono presenti parecchie assonanze: dentro lo schermo condividono lo scenario chiuso, in questo caso una prigione, e combattimenti serrati, oltre che mortali, a coinvolgere un gran numero di personaggi, mentre dietro le quinte, vedono entrambi impegnato un regista europeo migrato in Asia.

Così, in questo caso Jimmy Henderson è un regista milanese, armato di coraggio e di volontà, oltre indubbiamente di alcuni talenti non rinunciabili per dirigere un film impegnativo, che ha saputo cogliere l’occasione.

Certo, Jailbreak è tutto fuorché un film pulito in grado di funzionare in ogni sua direttiva, ma possiede degli attributi eloquenti e riesce a essere ampio nell’offerta, partendo da una spirale exploitation senza pudore. Da qui prende fiato un film ludico, scatenato anche di fronte a qualche scompenso, dove volano botte da orbi senza esclusioni di colpi, con una costruzione che riprende usi e costumi del cinema action più brutale nei modi, ma disponibile anche all’alleggerimento, alimentando un’anima selvaggia.

Sicuramente aiuta l’ambientazione carceraria, che sfrutta un numero contenuto di spazi (i corridoi sembrano ripetersi), perfetti per descrivere una discesa negli inferi, dove si scatena una irrefrenabile royal rumble, con detenuti delle più disparate risme a sbucare fuori da ogni angolo e alcuni brutali face to face, con coreografie soddisfacenti e alcuni autentici numeri da giocoliere di regia e montaggio.

Intorno alla linea guida saliente dei combattimenti - tutti sempre e solo a base di arti marziali, calci, pugni e lame – c’è poi parecchio condimento, atto a generare anche alcuni momenti di stasi e delle divagazioni extra mischia: le donne sono un elemento sorprendente e si dividono in letali e coraggiose (sempre comunque di aspetto non trascurabile), non manca il ricorso alla simbologia (mai tirare la leva numero 666), un cannibale sembra un incrocio tra Hannibal Lecter, per la sua voracità, e uno zombie gigantesco, per come si muove, e c’è pure un distillato pervert, dispensatore di quel lato ironico necessario per mantenerlo in piedi.

Alla fine, il risultato è forse un po’ acerbo, non c’è la stessa classe del fratello maggiore The raid, ma compensa con altre armi, come un po’ di umorismo, manifestando tenacia e poi diciamocelo senza troppi sotterfugi, che un regista italiano possa dirigere un action movie scatenato in Cambogia, come minimo dovrebbe condurre alla formulazione di qualche domanda sul nostro cinema: ma solo da noi è pura utopia pensare di fare certi film?

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