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Il volo della fenice

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il volo della fenice

di Inside man
8 stelle

Il volo della Fenice costituisce il punto d’avvio di una nuova fase nel cinema di Aldrich, in qualità di primo canonico “patrol movie” (ovvero “film di pattuglia”, sotto-genere cinematografico il cui capostipite può essere considerato “La pattuglia sperduta” di John Ford del 1934) di una serie che oltre al seguente e celeberrimo Quella sporca dozzina (1967) vedrà più tardi l’uscita di Non è più tempo d’eroi (1969) e dell’ottima appendice di Quella sporca ultima meta (1974).

 

In questo film ritrovano vigore alcuni vecchi capisaldi del regista statunitense, a partire dal tema del nucleo di persone isolato e sottoposto a condizioni ambientali e psico-fisiche estreme (seppure in forme diverse era stato uno dei leit motiv di molti dei suoi soggetti d’elezione, da Massai e Nanline inseguiti sulle montagne ne L’ultimo Apache, al plotone sotto assedio di Prima linea, fino alla Blanche paralizzata e segregata in Che fine ha fatto Baby Jane?), per proseguire con il confronto/scontro caratteriale fra individui emarginati (“i pragmatici dell’ideologia aldrichiana […] falliti senza-dio e senza-credo […], superstiti dell’esistenza come della società” come li definisce ottimamente Claver Salizzato nel Castoro dedicato ad Aldrich), teso a far affiorare i reconditi aspetti delle loro personalità.

Ma ciò che rende la pellicola una tappa importante della filmografia aldrichiana, è l’esordio di un elemento destinato a divenire fondamentale nella sua poetica: la riflessione sulle dinamiche di gruppo.

 

L’autore imprime un personale e sapiente sviluppo alle innumerevoli direttrici di tali dinamiche, focalizzando l’interesse sulla nascita e sul graduale consolidamento dello spirito di corpo di queste compagini di drop-out quanto mai eterogenee.

Riunite dal caso e catapultate improvvisamente in circostanze tragicamente sfavorevoli, vengono obbligate dagli eventi a porsi un obiettivo primario, la sopravvivenza (dai film successivi accostato all’anelito di libertà), da raggiungere tramite l’unica strategia vincente, in grado tra l’altro di appianare le caparbietà più radicate del loro animo negligente e asociale: il gioco di squadra.

Piegato l’istintivo individualismo, ciascuno finisce per servire altruisticamente la causa comune, alimentando un virile sentimento di solidarietà, guadagnando l’ambita meta (Aldrich adorava questa metafora sportiva legata al suo sport preferito: il football americano) e al contempo un riscatto interiore rimasto sempre frustrato nel loro passato.

 

 

La “scoperta” di tale componente narrativa (per la verità non proprio originale per il 1965) affascinerà profondamente l’ultimo Aldrich dei “film di pattuglia”, stimolandogli quella seconda giovinezza artistica che riuscirà ad emergere in modo compiutamente efficace e con grande precisione drammaturgica solo a partire da Quella sporca dozzina.

Nel Volo della Fenice infatti, le ombre di una sceneggiatura prolissa e piuttosto convenzionale (benché diligente nel dosare tempi delle battute e scansioni del racconto) si alternano alle luci di un sicuro mestiere e di uno stile registico classicamente avvincente, capace di mantenere la tensione su livelli accettabili e sufficientemente costanti.

 

L’autore ha la possibilità di mettere in evidenza la propria abilità sbizzarrendosi in riprese aeree, mostrando originali scorci d’ambiente (grazie all’ausilio di tagli d’inquadrature pregnanti per resa scenica e profondità di campo), utilizzando il montaggio impeccabile del fedele Michael Luciano, dotando di indubbio fascino le immagini del relitto aereo in mezzo alla vastità degli spazi desertici (oltretutto funzionali nello svelare le fasi della straordinaria ricostruzione del velivolo su scala ridotta), tuttavia non sfuggono sia le discontinuità di una struttura diegetica che appesantisce il ritmo, genera un’eccessiva lunghezza complessiva e una conclusione affrettata, sia lo schematismo di fondo dei personaggi, nonostante la buona prova complessiva del cast.

Trascurando gli apporti defilati di Tinti, Montoya e Marquand, sono gli attori di fama (il fidato Borgnine e Finch) a interpretare curiosamente le figure più rigide e artificiose, mentre aderiscono maggiormente ai loro ruoli, in virtù di una scrittura più calibrata, le vecchie volpi come Duryea e il bravissimo Attenborough, i semi-esordienti Kennedy e Bannen, i giovani di belle speranze in seguito non mantenute (Kruger e Fraser).

Ad impersonare egregiamente il pilota Frank Towns, con il tipico taglio inasprito e burbero ereditato dai protagonisti “westerner” dei film di Anthony Mann, è invece un James Stewart ormai a fine carriera, il quale ha modo di ritagliarsi un pezzo di bravura nella magnifica scena dove suo malgrado è costretto a sottomettersi agli ordini dell’odiato e vero artefice dell’impresa: il progettista aeronautico Heinrich Dorfmann (una sequenza contrassegnata da un lungo e magistrale attimo di “sospensione”).

Cinematograficamente, si tratta del momento più alto del film, accostabile per pathos a quello del passeggero italiano agonizzante, nostalgicamente rincuorato dalle note di “Senza fine” sotto gli sguardi smarriti dei compagni di sventura.

 

 

Un paragrafo a parte merita l’antagonismo Towns/Dorfmann, autentico fulcro della seconda metà del film.

Articolato su molteplici piani di lettura, ricorre in primis una delle materie esemplari del cinema aldrichiano: l’antitesi eroe/anti-eroe. I confini etico/morali dei due personaggi vengono qui sottoposti ad ulteriore processo d’elisione, approdando al risultato di contemplare due anti-eroi chiaroscuralmente indistinguibili fra loro (identico discorso potrebbe essere applicato ai compagni di sventura).

In secondo luogo c’è un contrasto di temperamenti ove risalta l’ostinazione e il senso d’orgoglio, quindi una sorta di passaggio generazionale (anziano/giovane), un rigurgito di istanze patriottiche mai sopite (con il sorgere di revanscismi tra alleati e tedeschi generati dalla seconda guerra mondiale), e ancora una battaglia psicologica che vede di fronte il sanguigno, carismatico e rassicurante pilota (comunque dominato dopo l’incidente dai rimorsi di un ossessivo senso di responsabilità, e aprioristicamente determinato a rifiutare qualsiasi rischio aggiuntivo al punto da condannare tutto il gruppo a un’atroce agonia), e un glaciale, cinico, deciso ingegnere (introverso e spocchiosamente privo di qualità empatiche).

Nondimeno rappresenta soprattutto la storica e basilare sfida tra tradizione e progresso, doti umane e apporto tecnologico, laddove gli emblemi di un’aviazione vecchia maniera fondata sulle virtù di temerarietà ed esperienza, passione e attitudine (Towns e Moran), si vedono costretti a lasciare il passo alla cruda incarnazione dell’evoluzione tecnica, della razionalità nozionistica, della maniacale e infallibile meticolosità organizzativa (Dorfmann), destinata a dominare presente e immediato futuro dell’intero pianeta (e come già sottolineato sarà il pilota, probabile alter-ego di Aldrich, a dover amaramente conformarsi: “Gli uomini con i regoli calcolatori e i cervelli elettronici erediteranno la terra“ dirà a un certo punto).

 

Alla contesa cardine fanno da corollario diversi sottotesti supplementari, ora di ambito psichiatrico e sentimentale (gli irrisolti e fiacchi episodi del caposquadra nevrastenico di Borgnine, e del marito angosciato di Tinti), ora militare, con l’ufficiale dedito a imbarcarsi in eroiche missioni impossibili cercando “la bella morte” in contrapposizione con la figura del sensato e pavido sergente, spregevolmente disposto ad ammutinarsi, omettendogli soccorso, pur di salvarsi la vita.

 

Molta carne al fuoco dunque, invero troppa considerando come in più occasioni il materiale sfugga al controllo dell’autore (compreso l’estemporaneo miraggio “al femminile”), influendo negativamente sugli equilibri formali e sulla ricerca di un asciutto lirismo che infatti solo raramente è in grado di sedurre.

In sostanza Il volo della Fenice appare un’opera di transizione imperfetta, dagli esiti più che discreti e con in nuce quei canoni narrativi che opportunamente bilanciati consentiranno ad Aldrich di divenire il cantore per eccellenza del “patrol movie“ a cavallo degli anni “70, un dato di fatto tuttora in attesa della definitiva consacrazione critica.

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