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Voglio la testa di Garcia

Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film

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La recensione su Voglio la testa di Garcia

di scapigliato
8 stelle

Il nostro grande Peckinpah firma un on the road western che è un funerale della vita, e un trionfo della morte. Mai stato così vicino alla morte (sia personalmente che poeticamente), riesce a creare in piena libertà un capolavoro arrabbiato e disperato sulla parabola tragica dell'uomo.
Si parte come in un vero western, e fino alla partenza delle macchine alla caccia di Garcia, non ci è fatto capire in che epoca siamo, nonostante due uomini in giacca e cravatta. Pur essendo difficile parlare di un film eccentrico tanto quanto il mitico personaggio di Warren Oates, vanno evidenziate le scardinature attraverso cui riesce ad imporre un'estetica e un linguaggio filmico che da soli comunicano e rappresentano l'esistenzialismo peckinpahniano.
La storia è eccentrica di suo, stesa dallo stesso regista con Frank Kowalski non poteva essere diversamente. Le spiegazioni più imbecilli che il pubblico televisivo vorrebbe a valangate sono soppiantate da un articolazione violenta e frenetica di un percorso mortuario, senza troppi perchè. Questo bbellissomo Oates va a cercare la testa di Garcia per dei maledetti soldi, e nonostante l'escalation interna di violenza e brutalità lo annienti anche fisicamente, lui va avanti anche per un motivo che travalica il denaro ed un fine concreto tipico hollywoodiano come il tesoro trovato, l'assassino ucciso, i due amanti riuniti, ecc.. Bennie/Oates voleva esorcizzare la morte. O forse lo voleva lo zio Sam. Fatto sta che per arrivare a rappresentare il confronto con la morte, che riempie la vita di tutti i giorni, il regista doveva portare il suo protagonista, che è poi l'alter ego, in percoso devastante, disperato, labirintico, senza perchè, e funerario, fino al confronto finale. La storia non c'entra, e la verosimiglianza, per dirla alla Hitchock, lasciamola ai porci ("porci" però lo dico io agli integralisti del realismo a tutti i costi).
Il linguaggio cinematografico è di una forza devastante e innovativa senza precedenti. Qui, libero di lavorare a modo suo, Peckinpah enfatizza ogni momento della vita del suo feticcio Oates. Sia nella brutalità deflagratrice di una sparatoria, sia nell'intimsmo tenero e imprevedibile dell'amore, ecco che i rallenti, il montaggio alternato, i primi piani, i dettagli, diventano non solo un inguaggio estetico, ma anche intellettuale. Abbinando, o per dirla alla Ejzenstejn "copulando" due figurativi distinti ma simili od anche antitetici, abbiamo un prodotto che va oltre alle due inquadrature, o fotogrammi, singoli. Ma in Peckinpah l'intellettualismo trova un terreno arido: lui è vita e morte allo stesso tempo, e la prova è il suo Warren "Bennie" Oates. I suoi dialoghi con la testa e con la sua Elita morta, sono i dialoghi dei grandi eroi tragici dell'immaginario letterario che dialogano con la morte, per sfidarla o per capirla. Ecco che il montaggio irriverente dei film di Peckinpah diventa in "Alfredo Garcia" parossistico, raggiungendo climax a cui era arrivato solo il Mucchio Selvaggio di Holden e Oates (comunque inimitabile). Acquista quindi non tanto una valenza linguistica, che è già di persè innovativa, ma una valenza esistenziale. Il discorso è racchiuso nello spazio di uno stacco. I labili perchè della vita e della morte trovano respiro in due inquadrature distinte, opposte, di velocità diversa, che sono messe una vicino all'altra senza una ragione strutturale precisa, se non quella caotica del multiforme che costituisce il nostro immaginario e il nostro bagaglio emotivo.
Se una pagina bianca è una poesia che deve essere ancora scritta, un film di Sam Peckinpah è una preghiera arrabbiata che cerca un compagnio di spronze. Forse solo allora qualche perchè della vita e della morte ci verrà svelato. Magari proprio da Alfredo Garcia. "Bring Me the Head of Alfredo Garcia!"... grande Emilio Fernandez!

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