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I cancelli del cielo

Regia di Michael Cimino vedi scheda film

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Raffaele92

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I cancelli del cielo

di Raffaele92
6 stelle

Sputa, sputa e ancora sputa.

Michael Cimino ha passato la sua intera (breve) carriera cinematografica a sputare nel piatto in cui mangiava. I suoi film mettono in discussione, criticano e infine abbattono le fondamenta sulle quali sono stati “costruiti” gli Stati Uniti d’America (o, potremmo dire, le nazioni tutte: si veda “L’anno del dragone”, 1985). In questo senso, “I cancelli del cielo” è il punto più estremo della filmografia del regista. Ma facciamo un passo indietro, perché su una delle vicende cinematografiche più importanti (nel bene e nel male) di tutti i tempi, è doveroso fare una premessa.

Negli anni ’70 Hollywood fu testimone di un periodo in cui le Major erano disposte (come mai accadde prima e come non si verificò più poi) a garantire ingenti budget a cineasti pseudo-esordienti. Il clamoroso successo di pellicole come “Il padrino” (1972), “Lo squalo” (1975), e “Guerre stellari” (1977) ha portato le grandi case cinematografiche alla perseveranza nell’adozione di questa politica.

Orbene, è proprio su queste basi che nacque “Il cacciatore” (1978), strepitoso successo tanto di pubblico quanto di critica, in ragione dei suoi 5 (meritatissimi) Oscar, tra i quali “Miglior Film”.

Il trionfo di quest’ultima opera, diretta sempre da Michael Cimino, ha spianato la strada al cineasta garantendogli la possibilità di realizzare il suo “Heaven’s Gate”.

Il risultato è stato disastroso su tutti i fronti: fallimento della United Artists, la carriera di Cimino totalmente rovinata, nonché la fine di quest’epoca d’oro dove le grandi case di produzione favorivano i talenti emergenti.

Quali i motivi di questo così colossale fiasco?

Semplicemente quest’opera è arrivata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questo posto e questo momento sono l’America della fine degli anni ’70 e dei primi ’80, epoca in cui lo spirito nazionalista degli Stati Uniti si era risvegliato dal (grande) sonno del Vietnam e l’identità nazionale era collettivamente percepita come forte e solida contro un unanimemente riconosciuto nemico chiamato URSS.

A seguito di questa premessa, risulta evidente come un film così duro e implacabile nel condannare i padri fondatori della nazione venga ripudiato, rifiutato e disprezzato in modo così rigido e accanito.

L’errore del regista nel mettere in scena il proprio racconto (o meglio, la propria personale e discutibile visione delle cose) è quello di non fare premesse né dare spiegazioni, mostrando semplicemente lodi e virtù di vittime stereotipate e, in quanto tali, poco credibili (gli immigrati slavi), addossando il marcio, l’ingiustizia e la crudeltà a chi non ha fatto altro che respingere un’occupazione.

L’America è nata col sangue di milioni di innocenti, ci dice Cimino. Ma la sua condanna è cieca, fine a sé stessa: non riflette sulla Storia ma si limita a puntare il dito contro un progresso culturale e civile non proponendo alternative, bensì tracciando semplicemente un fragilissimo cerchio dove racchiudere blandamente sfruttati e sfruttatori.

Assolutamente estraneo ai riferimenti al Vietnam che alcuni hanno visto in questo Wyoming di fine ‘800, è un film che (duole dirlo) si fa arrogante nella perseveranza del proprio drastico e opinabile pensiero.

Eppure questa medaglia ha due facce.

Al di là di quanto detto finora, la pellicola ha dei pregi innegabili e preziosi: costumi e ricostruzione storica sono semplicemente perfetti; vi è una fotografia a dir poco splendida e in grado di dar corpo a immagini che, quando accompagnate dall’inarrivabile, sublime e struggente colonna sonora, regalano pezzi di cinema sublimi.

Oltre a questo il plot è solido e coerente, e scartando abilmente le trappole della noia riesce a farsi appassionante per tutte le due ore e mezza di film (sto quindi facendo riferimento alla versione ridotta, non avendo quella estesa). La divina performance del terzetto di attori protagonisti non può che andare a favore del tutto.

Volendo trovare proprio un difetto nella trama, la morte di Isabelle Huppert nel finalissimo è inutile, fastidiosa e assolutamente non necessaria anche e soprattutto in rapporto al messaggio politico del film.

“I cancelli del cielo” quindi non solo si guarda bene, ma contiene due sequenze da antologia: il ballo iniziale sul prato e la danza di Kristofferson e della Huppert nel capannone. Tutta la battaglia finale, poi, è spettacolare e perfetta.

In definitiva, questo caso cinematografico è un eterno e insondabile paradosso: opera sensibile, raffinata e di altissima qualità, ma ideologicamente aberrante.

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