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Adorabile infedele

Regia di Henry King vedi scheda film

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La recensione su Adorabile infedele

di spopola
6 stelle

Pur nella sua convenzionalità, il film ci offre molti momenti appassionati e convincenti che (specialmente il trepido finale sulla spiaggia), riescono ad appassionare sufficientemente lo spettatore. Come sempre in questi casi però il merito va attribuito quasi esclusivamente alle straordinarie doti interpretative degli attori.

L’adorabile infedele del titolo (e non solo  perché è il verso di una sua poesia), è ovviamente Francis Scott Fitzgerald, uno dei più rappresentativi e “fondamentali” romanzieri made in Usa del  periodo fra le due guerre del secolo scorso, del quale è stato meraviglioso e inimitabile “cantore”.

La fonte è però l’autobiografia - fra cronaca e storia d’amore - scritta dalla giornalista mondana Sheilah Graham (con la collaborazione di Gerold Frank) che fu la compagna dello scrittore negli ultimi anni della sua vita prematuramente conclusasi nel 1940, e credo che il problema principale di una certa qual dose di insoddisfazione che emerge, stia proprio qui, nel fatto cioè che il libro, anziché su Fitzgerald,  sposti inevitabilmente l’asse portante sulla donna (e sul versante privato di una relazione) considerando appunto che  nasce prima di tutto come racconto della sua vita (un “percorso” molto americano dove la favola di Cenerentola e il mito di Pigmalione rivivono e si intersecano alla perfezione), anche se, nell’esplicitare finalmente le sue verità persino sulle proprie misconosciute origini spesso mistificate, la parte più significativa della  sua storia è pure quella che potrebbe essere definita la storia di Scott - come poi lei afferma proprio nella presentazione rivolgendosi in prima persona allo scrittore -  e persino lo stimolo stesso per affrontare l’impresa va ricercato principalmente nella volontà di parlare del “vero” Fitzgerald, quello che lei aveva conosciuto, e che trovava essere così diverso dalla un po’ stereotipata figura che traspariva attraverso le “fonti ufficiali”dei giornali  e delle biografie codificate, per altro abbastanza scarse, vista la parabola discendente che aveva sempre più spinto il letterato verso un oblioso dimenticatoio.

 Si avverte però un che di “artefatto” nella esposizione dei fatti che se non inficia assolutamente (non ci sarebbero elementi sufficienti per poterlo fare) il valore del loro rapporto che “dobbiamo” inevitabilmente dare per scontato, è decisamente insufficiente per restituire  a noi un ritratto completamente soddisfacente di questo autore basilare (ma dalle alterne fortune) per la letteratura non solo del suo paese.

Il problema si accentua enormemente nella trasposizione cinematografica che, seppure  “semplifica” abbastanza velocemente tutto ciò che precede l’incontro e il rapporto fra i due e si sofferma principalmente sulla storia d’amore e di “redenzione” creativa (visto che si attribuisce qui – e non sappiamo davvero poi con quale effettiva attendibilità realistica - proprio alla presenza della Graham il merito di aver restituito a Fitzgerald lo stimolo e la forza necessaria per rimettersi a scrivere e plasmare il suo ultimo capolavoro rimasto incompiuto per l’improvviso arresto di quel cuore troppo logorato dagli stravizi e dalla vita)  ne traccia un profilo ancor più  “edulcorato” e approssimativo che segue schemi abbastanza consolidati nel rispettare il tradizionale, banale e anodino percorso di “genio e sregolatezza” applicabile indifferentemente ad ogni artista, e qui ancora una volta riscattato, come accade quasi sempre, dalla “salvificità “di una relazione affettiva che ristabilisce equilibri precedentemente smarriti e che la morte improvvisa rende “tragicamente” definitiva e a sua volta “non terminata”. Un aspetto questo, che fu fortemente stigmatizzato in negativo all’indomani dell’uscita del film nelle sale nel lontano 1959, e che fece scrivere – credo al critico Giulio Cattivelli -, “che il cinema americano aveva perso una grossa occasione riparatrice con questo insipido risultato, che poteva  essere considerato come l’ultimo e definitivo torto alla  memoria di un ingegnoso e inimitabile autore” (cito a memoria) .

In effetti, se la sua figura fosse stata rievocata con maggiore attendibile, meticolosa serietà (pur mettendo naturalmente in conto le inevitabili licenze e gli addolcimenti sentimentali particolarmente accentuati qui dalla natura della “fonte” che sempre inficiano le biografie un po’ rotocalchesche messe in piedi dall’industria cinematografica), poteva davvero uscirne  un degno omaggio meno “commemorativo” e più “realistico”, oltre che un interessante quadro di costume “sull’età del jazz” e sui crudi retroscena degli anni più fulgidamente sfolgoranti della stessa  Hollywood che ebbe fra  sue vittime più illustri proprio l’autore di  “Di qua dal paradiso”, “Belli e Dannati”, “Tenera è la notte”, “Il grande Gatsby” e appunto persino quel “Gli ultimi fuochi”  che di quel mondo aveva già tracciato un ritratto abbastanza al vetriolo del quale si poteva benissimo tenere più conto.

L’aver preso invece le mosse soltanto dal memoriale della giornalista, restringe  inevitabilmente la ricognizione narrativa, concentrandola solo sul breve periodo estremo dell’esistenza dello scrittore, con l’aggravante di ridurre il tutto al resoconto di un pedissequo, un po’ “tardivo” idillio tempestoso (che è sempre una vicenda meramente privata) per altro distorta da una “visuale” deformata,  poiché è in ogni caso (e la pellicola non se ne discosta assolutamente) quella soggettiva e interessata della donna innamorata (che volente o nolente, è inevitabilmente portata a “tirare l’acqua al suo mulino”).Ci voleva quindi forse (e non so se sarebbe stato sufficiente) per lo meno la mano di un regista più disponibile a rischiare di un uomo “per tutte le stagioni” come Henry King, per altro più portato proprio per sua natura a “romanticheggiare” sui sentimenti, piuttosto che ad approfondire il “costume” e la “storia”.

La conclusione allora? Molto semplicemente che del vero, autentico Fitzgerald resta davvero molto poco, poiché il romanziere ci è presentato genericamente più che altro come un artista “dimenticato” e “incompreso”, un uomo segnato dagli eventi che per mantenere la moglie Zelda in manicomio  e la figlia agli studi, si adatta a scendere al compromesso di scrivere sceneggiature, poi  regolarmente rifiutate dai produttori committenti, “perchè ritenute troppo intelligenti”.  Inevitabile allora che un uomo così amareggiato e sofferente, ad ogni nuova delusione sempre più cocente, non possa che reagire con sbornie colossali e tremende scene di gelosia irosa, persino verso il fin troppo “caritatevole” e fedele angelo che ha deciso di prendersi cura di lui, così imperturbabilmente innamorato e altruista, da tenere a bada  il proprio orgoglio ferito e ritornare ad assolvere il compito della “crocerossina” anche dopo le frequenti rotture, che avrà  però alla fine il “privilegio” di assistere,  grazie alla sua dedizione, alla rinascita di una creatività troppo a lungo sopita.

Tutto qui, tanto che se non si sapesse che si parla di Fitzgerald “in quanto tale”,  potrebbe essere scambiata persino per una storia di fantasia appositamente immaginata per il più che disponibile pubblico femminile e non, che cerca dallo schermo risposte “appassionate” per il proprio fabbisogno emotivo, e poco altro. Al di là del disegno dei caratteri, qui fa poi difetto anche la cornice storico ambientale (mi riferisco soprattutto al dorato mondo – in apparenza -   della mecca del cinema) scarsamente  insufficiente e davvero molto manierato.

Nondimeno il film, pur nella sua convenzionalità (contenutistica e strutturale) ci offre  molti momenti appassionati e convincenti che (specialmente il trepido finale sulla spiaggia), riescono ad appassionare sufficientemente lo spettatore. Come sempre in questi casi però il merito va attribuito quasi esclusivamente alle straordinarie doti interpretative degli attori che fanno rivivere i personaggi, e qui soprattutto a quella meravigliosa interprete che rispondeva al nome di Deborah Kerr (incomprensibile immaginare che una performer di siffatta finezza  e duttilità, nonostante le numerose candidature, non sia mai riuscita ad agganciare un Oscar se non quello alla carriera) : è lei infatti la vera arma vincente dell’operazione, quella che più di ogni altra cosa restituisce un senso in positivo alla visione dell’opera e non tanto perché - visto il “taglio” - è poi lei la vera protagonista assoluta, quanto per le sue innate doti  che riescono a rendere palpitante una recitazione sempre controllata, semplicemente con un impercettibile battere di ciglia, o un illanguidirsi dello sguardo. Più di maniera risulta invece Gregory Peck comunque dignitosamente diligente (ma a volte leggermente spaesato, quasi si sentisse un tantino “fuori parte” sopratutto nelle scene rabbiose della collera e in quelle davvero poco credibili dove "deve" fare l'ubiraco), che ha in ogni caso dalla sua il fascino prestante della figura che  riscatta un poco eventuali piccole “negligenze” di percorso qui abbastanza consistenti. A posto tutti gli altri, il magistrale universo dei caratteristi hollywoodiani, con une particolare menzione per il sempre “puntale” Eddie Albert (anche se oggettivamente questa volta sono coinvolti solo "marginalmente"). Un po’ routinieramente  melodrammatica la colonna sonora di Franz Waxmann (ha fatto ben di meglio nella sua carriera) e  ben calibrati invece gli ”spazi ariosi” della fotografia di Leon Shamroy.

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