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Non si sevizia un paperino

Regia di Lucio Fulci vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Non si sevizia un paperino

di Gyx
9 stelle

Un paesino della Lucania, chiuso ed isolato dal resto del mondo, è preda della violenza di un killer che ha già ucciso tre bambini. Fin dall’inizio i sospetti cadono su chi è diverso: una ricca signora di città da poco arrivata nel paese, la bella Patrizia (Barbara Bouchet) e una donna accusata da tutti di essere una fattucchiera, una “maciara” (Florinda Bolkan). Spetterà a un giornalista (Tomas Milian), con l’aiuto di Patrizia, risolvere il caso e riportare l’ordine in una comunità vittima di ignoranza e pregiudizi.

 

 

Siamo di fronte ad un thriller atipico, e forse al miglior film di Fulci. Questo giallo all’italiana risulta infatti essere estraneo alla corrente dei thriller italiani dell’epoca, oltre ad essere innovativo e a dare un po’ di aria fresca a questo genere. L’ambientazione è insolita: fino a questo punto nessuno aveva girato un thriller così “rurale”, un film ambientato in un piccolo paese dell’estremo Sud dell’Italia con l’obbiettivo di analizzare le dinamiche  che vengono a crearsi in una piccola comunità arretrata e superstiziosa come questa. Tutto questo è messo ancora più in evidenza dal fatto che il regista, inquadrando le autostrade e le macchine nuove (simboli della neo modernità),  e passando subito dopo a questo paesino, riesce a mostrarci la differenza in modo immediato e a farci passare da un’epoca all’altra in un attimo. In “Non si sevizia un paperino” la poetica dell’autore emerge non solo dalla tecnica, dalle riprese e dallo stile riconoscibili, ma anche dal messaggio trasmesso. Capiamo infatti quanto Fulci sia contro ogni sorta di superstizione e religione: in questo suo film non ci sono mostri o zombie (il mostro è l’arretratezza, l’ignoranza, la religione, la superstizione,…), l’assassino è infatti un prete che uccide i bambini per purificarli, per salvarli dai peccati che hanno commesso o potranno commettere in futuro (la tentazione della carne e del sesso, rappresentata in questo caso in modo esplicito dal personaggio di Barbara Bouchet), gli abitanti di questo paese della Basilicata sono in costante ricerca di un capro espiatorio e sono schiavi dell’ignoranza e dei pregiudizi a tal punto da uccidere una “strega”, anche lei paradossalmente convinta di aver ucciso i bambini grazie a delle bambole vodoo. Il “poeta del macabro” o “il padrino del gore” se preferite, gira un film crudo, pigiando sull’acceleratore della critica e della cattiveria: gli omicidi sono ben orchestrati e abbastanza cruenti, specialmente quello della maciara uccisa a catenate dai genitori dei bambini assassinati, una scena fatta benissimo, con un montaggio e delle inquadrature sghembe notevoli, con le catene che squarciano la pelle sotto le note di “Quei giorni insieme a te” di Ornella Vanoni, una canzone molto melodica e romantica accostata ad una scena cruenta, contrasto che risulta tuttavia molto efficace, ricco di pathos e tragicità. È interessante far notare come in questa scena della pellicola il brano provenga dalla radio e come alla violenza visiva sia messa in sottofondo una canzone tranquilla e melodica (metodo che utilizzerà anche Tarantino nella famosa scena dell’orecchio tagliato in “Le Iene”). Altre due scene di culto e memorabili sono sicuramente il finale, dove il prete cade dal burrone sotto le note del grande compositore Riz Ortolani (scena fantastica con un montaggio alternato tra la caduta e i flashback nei quali il prete gioca a calcio con i bambini) e la controversa scena del bambino che porta il succo d’arancia alla Bouchet nuda (scena che ha portato il regista in tribunale, che dovette spiegare e dimostrare che nei controcampi, quando si vedeva il bambino, lei non era nuda, mentre nei campi lo era ma il bambino non aveva assistito a niente perché si utilizzò un nano). Questo thriller è tecnicamente perfetto, la regia di Fulci è riconoscibile e ottima: i primissimi piani sugli occhi, l’utilizzo dello zoom, gli stacchi veloci i campi lunghissimi e le fantastiche panoramiche di queste zone meravigliose del Sud Italia. La tecnica, la messa in scena, e il genere stesso direi, sono usati per cogliere più sfumature rispetto ai thriller all’italiana dell’epoca, per dire tante cose, per esprimere pensieri e concetti (come appunto la chiusura mentale di questa piccola comunità o la logica perversa della religione che non ti vuole mai fare crescere veramente così da poterti controllare e comandare per sempre, come un bambino appunto): è qui che sta l’atipicità e l’innovatività che rendono “Non si sevizia un paperino”  un gioiello.

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