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Lezioni di piano

Regia di Jane Campion vedi scheda film

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La recensione su Lezioni di piano

di LorCio
8 stelle

Di donne mute non ne abbiamo viste molte in pellicola (Johnny Belinda su tutti). Nella letteratura abbiamo un esempio fulgido, la Marianna Ucrìa di Dacia Maraini. Poi c’è Ada, la dolente e falsamente frigida eroina di questo memorabile film al femminile. Jane Campion, in gran forma, esplora i territori pseudo-tropicali della Nuova Zelanda e li celebra come luoghi avvolti in suggestive luci nei quali avventurarsi è quanto mai ardito. Li fa abitare dai due personaggi più vigorosi ed importanti della storia, mamma e figlia. E il film impressiona per la sua originalità raffinata ed elegante, rifacendosi a vari modelli, citati con accurata diligenza (su tutti le atmosfere intense della scrittura delle sorelle Bronte), e i temi di fondo sono quegli cari al melodramma, con qualche ingrediente più intrigante e bizzarro: c’è il ricatto amoroso imposto dall’altro (un maori convertito che s’invaghisce dell’inquietudine di Ada); ci sono gli sguardi languidi e sognanti; c’è la pioggia (e dio solo sa quanto sia importante e funzionale la pioggia battente in film del genere); c’è il rapporto famigliare labile ed irrequieto; c’è la musica, che puntella con energica passione gli ambienti; c’è una sorta di esotismo nei luoghi; e c’è la follia, rappresentante il culmine della storia.

 

Sottile e strisciante condizione necessaria nel melodramma, la follia ha qui i connotati di lui, il marito di Ada, entrato in un tunnel senza ritorno a causa dell’assenza di un appagamento amoroso e della scoperta del tradimento. La scena che ne descrive lo spannung è a dir poco spaventosa: ciò che per Ada è il veicolo per soddisfare la propria ragione di vita (le dita), viene simbolicamente (un solo dito, ma è il gesto a ripugnare) tagliato, per far capire come il maschio sia più forte e le convenzioni del matrimonio più importanti di qualunque altra cosa. È anche un film femminista, ma non solo. Sensuale e misterioso, violento ed incandescente, può apparire freddo solo a chi non ne percepisce l’ardente fuoco che vi brucia e si limita ad ammirarne lo stile formale e livido (ruvida e sporca fotografia di Stuart Dryburgh, costumi di Janet Patterson). Ultimi venti minuti di grande potenza inquieta e nervosa, sfocianti in un finale speranzoso ed enigmatico con salvataggio (però c’è il fantasma della morte sempre presente). Holly Hunter è fantastica e ha fatto incetta di premi. Grandi prove per il cerebrale Harvey Keitel e il teso Sam Neil e lodi unanimi alla impetuosa Anna Paquin. Ed adeguato uso delle ottime e suggestive musiche di Michael Nyman.

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