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Cape Fear. Il promontorio della paura

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Cape Fear. Il promontorio della paura

di 79DetectiveNoir
7 stelle

Preferite il film di Lee Thompson o il suo remake? Preferite Jessica Lange, dunque siete gerontofili e amanti delle milf, oppure vi eccita Juliette Lewis, dunque siete pedofili oppure, onestamente, sessualmente sanissimi? Ah ah. Sì, se non vi piacciono queste milf, no, film, fatevi una sega. Oppure fatevi una Lolita.

Robert De Niro

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Robert De Niro

Robert Mitchum

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Robert Mitchum

 

Robert Mitchum

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Robert Mitchum

Robert Mitchum

Il promontorio della paura (1961): Robert Mitchum

Gregory Peck

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Gregory Peck

Nick Nolte, Jessica Lange

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Nick Nolte, Jessica Lange

 

Ebbene, in concomitanza con l’uscita, in cofanetto e in contemporanea, di entrambe le versioni in Blu-ray di Cape Fear (questo il titolo originale sia dell’originale che del suo remake che tratteremo seguentemente nella nostra breve disamina e tratteggeremo nei punti recensori più salienti, speriamo esaustivi, sottotitolato Il promontorio della paura, che altri non è se non il titolo italiano anche del capostipite), giustappunto, raffronteremo e compareremo il rispettivo film di J. Lee Thompson (I cannoni di Navarone) del 1962 e la versione “modernizzata” firmata da Martin Scorsese (The Irishman) del 1991. Opera, quest’ultima, già ampiamente espostavi nella sottostante recensione qui affissavi.

Tutt’e due le pellicole, ovviamente dalla trama similare, sebbene nel suo rifacimento scorsesiano decisamente rielaborata con non poche licenze autoriali ben differenti dalla pellicola di Thompson, presentano su per giù tale vicenda narrataci e da noi prossimamente enunciata. Lineare, narrativamente molto semplice, incentrata su una storia atroce e infermabile di vendetta furiosa.

Sia ne Il promontorio della paura di Thompson che nel Cape Fear di Scorsese, i nomi e cognomi dei due protagonisti, vicendevolmente antagonisti, sono identici, ovvero Max Cady & Sam Bowden, interpretati da Robert Mitchum e Gregory Peck (i quali, per il film di Scorsese, torneranno in piccoli cammei centrali e in ruoli, in un certo senso, antitetici). Fra parentesi, inseriremo i nomi degli attori di ambedue le pellicole che hanno, per l’appunto, incarnato lo stesso character o, che dir si voglia, personaggio cinematografico assai iconico:

Max Cady (Mitchum e Robert De Niro) è un galeotto dal fisico taurino, palestrato e dalla scorza più tosta e granitica d’un marmo inscalfibile, dotato di straordinaria possanza fisica e soprattutto incattivitosi spietatamente, appena uscito di prigione dopo aver scontato una dura, aberrante condanna esiziale per stupro commesso ai danni d’una donna innocente. Riagguantata la libertà, anziché godersela e vivere riabilitato e spensieratamente appagato nel mondo, ostinatamente e terroristicamente insegue un solo pericoloso e funereo obiettivo implacabile, mostruoso o forse addirittura, paradossalmente, sacrosanto. Perlomeno, secondo il suo punto di vista moralmente ambiguo o, chissà, terribilmente giusto e biblicamente punitivo. Poiché, nonostante sia libero, ritiene di essere stato derubato dei suoi anni migliori, ingiustamente e impunemente...

Cosicché, mosso da bellicosi pensieri di rabbia incontenibile, dà oscenamente filo da torcere continuo al suo ex legale Samuel Bowden (Peck e Nick Nolte), colpevole imperdonabile, a suo dire, di averlo difeso male durante la difesa in tribunale, in quanto gravemente responsabile arbitrariamente d’aver violato un principio assolutamente importante della Costituzione statunitense, cioè il Sesto Emendamento, secondo cui qualsiasi cittadino, macchiatosi o meno del reato per cui è giudicato e processato, ha comunque diritto insindacabile di potersi e doversi avvalere di un equo, probo e imparziale avvocato che, per nessuna ragione al mondo, nemmeno di natura etica, a prescindere dall’accertamento futuro dell’eventuale colpevolezza dell’indagato, deve contravvenire laidamente o per ragioni disoneste al segreto professionale.

Mentre e a dispetto di ciò, secondo Max, Bowden avrebbe volontariamente omesso un fascicolo d’assoluta rilevanza in termini giuridico-penalistici che sarebbe stato decisivo non tanto per dargli l’assoluzione, questa, sì, alquanto improbabile date le sue comunque ammesse e coscienti colpe incontrovertibili da lui stesso sinceramente dichiarate con sana contezza, quanto per ridurgli la pena drasticamente, favorendolo non poco ed evitandogli una prigionia troppo lunga e sproporzionata, a suo avviso, in proporzione al crimine commesso. In quanto si trattava d’un fatale documento contenente particolari determinanti ai fini processuali che avrebbero nettamente smorzato il triste gravame alla base del capo d’imputazione emessogli contro troppo duramente.

Al che Cady, irredimibile e soprattutto instancabilmente accecato dalla sua furibonda eppur al contempo furba voglia di vendetta inestinguibile, come detto, inesorabilmente, inizia a terrificare sia Bowden che sua moglie e sua figlia. Attenzione, in tal caso, ovviamente i cognomi delle donne di Samuel rimangono invariati ma, se nella versione di Thompson, si chiamano Peggy (Polly Bergen) e Nancy (Lori Martin), in quella di Scorsese, divengono Leigh (Jessica Lange) e Danielle (Juliette Lewis).

Naturalmente, Cady agisce in modo accorto, sadico, sì, ma scrupoloso al fine di non finire in carcere di nuovo. Cioè, da pazzo lucido, opera contro Bowden in maniera viscidamente subdola e psicologica, scrupolosamente attentissimo a non sconfinare, coi suoi atteggiamenti persecutori, nell’illegalità, conseguentemente in modo tale da non poter essere assurdamente accusato, legalmente parlando, di qualcosa di criminoso e penalmente punibile.

Ebbene, se Il promontorio della paura è un buon thriller/noir di genere piuttosto convenzionale per quanto elegantemente diretto ed egregiamente fotografato, con toni vividi e lividi, dal bravissimo Sam Leavitt, Cape Fear, nelle mani di Scorsese (subentrato alla regia dopo l’iniziale, forte interessamento di Spielberg, rimastone poi fuori ma restatone produttore, dedicatosi a Schindler’s List che, a sua volta e viceversa, aveva attratto Scorsese, per un interscambio registico-amicale veramente affascinante così come noi già vi spiegammo precedentemente), partendo dal materiale originario dell’originale succitato, diviene un film metaforico, sempre connotato da scure e avvincenti, inquietanti tinte thrilling profumate d’entertainment purissimo, apparentemente senza pretese ideologiche pedanti o moralistiche, però corroborate al contempo d’atmosfere e d’una riconoscibilissima poetica perennemente, indissolubilmente allineata all’inconfondibile sguardo e ai classici stilemi scorsesiani, improntati, come sappiamo, sulla variazione tematica, quasi à la Paul Schrader (Taxi Driver docet) dell’afflizione, della redenzione, dell’ineluttabile e duale conflitto, eternamente invincibile, della nostra contradditoria, ipocrita condizione umana condizionata (perdonate il voluto gioco di parole, potremmo dire, ricercatamente mellifluo e allusivo), a livello istintivamente comportamentale, da una farisea natura educativa d’imprinting ineludibile, trasmessoci inconsciamente e in forma falsamente catechistica, religiosamente conflittuale, forse perfino morbosa, ipocrita e perciò, in termini di trasparente eticità nuda e cruda, primordialmente e orridamente sbagliata poiché coerentemente inattuabile, solipsistica e utopistica.

Quindi, il Cape Fear, ponendosi a un livello concettuale-interpretativo ben più alto, filosoficamente intendendoci, rispetto al suo originale progenitore thompsoniano, assurge a pellicola, se non qualitativamente superiore, perlomeno interpretabile sotto maggiori, fascinose e molteplici chiavi di lettura culturalmente più affascinatrici e stimolanti.

Inducendoci a riflessioni non banali né scontate su chi sia, fra Bowden & Cady, il vero mostro e il vero, squilibrato, psicopatico colpevole ignominioso e, nella sua iniqua e inquinata, avvelenata anima forse traviata e insalvabile, profondamente ferito e malato in modo malsano e perverso in forma irreversibile delle più umanamente terribili e penose. Lo sono entrambi? Può essere...

A voi, come si suol dire, spettatori, l’ardua sentenza e il vostro personale verdetto inappellabile e lapidario.

Curiosità: per Il promontorio della paura, le musiche sono di Bernard Herrmann. Il cui ultimo lavoro, come compositore di colonne sonore, è curiosamente avvenuto con Scorsese per Taxi Driver. Suo enorme ammiratore.

 

di Stefano Falotico

Gregory Peck

Il promontorio della paura (1961): Gregory Peck

Juliette Lewis

Cape Fear. Il promontorio della paura (1991): Juliette Lewis

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