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TWIN PEAKS 3. Domande, risposte, interpretazioni.
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Domande.

Ci sono due modi per vedere la terza stagione di Twin Peaks. Vedere, godersi, studiare, analizzare, etc… ognuno riadatti il verbo ai propri interessi. Due quindi i modi: a) vedere Twin Peaks con gli occhi del cultore di David Lynch e quindi vedere la terza stagione per il fatto di vedere un prodotto di David Lynch, vedere ed entrare nuovamente nel suo universo, nel suo mondo linguistico, estetico e antinarrativo; b) vedere Twin Peaks con gli occhi del cultore di Twin Peaks, il nostalgico che torna all’età dell’oro, l’assassino che torna sul luogo del delitto, godendo di nuovo delle stesse atmosfere che all’epoca lo avevano stregato, giubilare per il ritorno di vecchi personaggi, vecchi “amici”, cambiati nel tempo, il che rende il tutto ancora più nostalgico.

Chi scrive ha visto Twin Peaks con questa seconda modalità, nonostante sia anche un cultore del regista stesso. Ma qui nasce il primo problema: è possibile accettare Twin Peaks solo come opera mondo di Lynch, oppure si poteva pretendere che fosse solo la terza stagione di una serie cult in cui un delitto di provincia scuoteva l’America intera e i cui passi nel nero, nel bizzarro e nel grottesco gettavano una luce nuova sulle modalità del racconto fantastico? Dilemma che può proseguire così: sarebbe stato meglio che la terza stagione di Twin Peaks fosse restata fedele ed ancorata alle due precedenti, oppure che avesse esplorato territori ed immaginari completamente nuovi?

Come ormai ben sappiamo è andata proprio così. Twin Peaks 3, conosciuta anche come Twin Peaks: The Return, come nel più classico della serialità popolare – anche se il "ritorno" del titolo può avere un'interpretazione meno scontata – consiste in due grosse trame parallele, due nuclei narrativi che si sviluppano parallelamente per poi incrociarsi; insieme a loro ci sono più subplot, se non addirittura singole scene estranee a qualsiasi delle trame e delle sottotrame della serie, come il caso di Gary Hershberger, che interpretava Mike Nelson il miglior amico di Bobby Briggs e che rivediamo solo in un episodio in una fugace apparizione completamente slegata dalle trame di Twin Peaks, se non per essere legata al solo personaggio di Steven, interpretato da Caleb Landry Jones, fidanzato problematico di Amanda Seyfried, che interpreta Becky, la figlia di Shelly e di Bobby – protagonista di una scena di altissima poesia visiva quando il suo volto è ripreso quasi a piombo mentre in macchina con il suo ragazzo segue il cielo sorridendo.

Queste due trame principali sono così sinteticamente strutturate. La prima, che si nota subito essere la preferita dal regista, ambientata in più luoghi d’America, da Las Vegas a Buckhorn nel South Dakota, passando dal Pentagono e da Buenos Aires, riguarda strettamente il personaggio di Dale Cooper, agente FBI sparito appena dopo la risoluzione del caso di Laura Palmer. Il Dale Cooper posseduto dallo spirito malvagio di Bob è uscito a suo tempo dalla loggia nera e ha vissuto nel mondo del crimine per tutti questi venticinque anni, mentre il Cooper buono, è rimasto imprigionato nella loggia nera. Questa trama prevede che il Cooper buono riesca ad uscire dalla dimensione in cui si trova riapparendo nei panni di Dougie Jones mentre l’FBI, con in testa il direttore Gordon Cole – lo stesso Lynch – è sulle tracce di quello che crede essere l’unico Cooper al mondo, prima di rendersi conto di un doppio malvagio. Questa trama prevede anche l’indagine sulla sparizione e poi il delitto del maggiore Garland Briggs, un personaggio che già nella serie originale andava acquistando sempre più importanza lungo l’arco della seconda stagione e che la scomparsa dell’attore che lo interpretava, Don Davis, non ha potuto probabilmente aiutare Lynch a sviluppare una plot differente.

La seconda trama invece è totalmente ambientata a Twin Peaks e, oltre a raccontare anche episodicamente le piccole e domestiche storie legate ai vecchi personaggi, si dedica soprattutto all’indagine della polizia locale sollecitata da alcuni indizi misteriosi che la Signora Ceppo, alias Margaret Lanterman, interpretata da Margaret Coulson, scomparsa purtroppo a inizio riprese, ha svelato al vice Hawk circa il ritrovamento di Cooper e che coinvolgerebbe di nuovo Laura Palmer e i fatti accaduti venticinque anni prima – anche se in realtà sappiamo essere ventisette (le riprese sono iniziate a settembre 2015, a poco più di 25 anni dalla serie originale, ma è stata trasmessa in televisione nel 2017).

Ritorniamo alle domande iniziali, i miei crucci: 1) è possibile accettare Twin Peaks solo come opera mondo di Lynch, oppure si poteva pretendere che fosse solo la terza stagione di una serie cult in cui un delitto di provincia scuoteva l’America intera e i cui passi nel nero, nel bizzarro e nel grottesco gettavano una luce nuova sulle modalità del racconto fantastico?; 2) sarebbe stato meglio che la terza stagione di Twin Peaks fosse restata fedele ed ancorata alle due precedenti, oppure che avesse esplorato territori ed immaginari completamente nuovi?  

Credo che un autore complesso come Lynch sia sempre un piacere per la visione e per la mente. I suoi film trascendono la realtà e creano collegamenti assurdi e allucinati con pratiche e teorie filosofiche di cui io personalmente non conosco nulla, ma che gli addetti ai lavori hanno trattato con profondità in questi ultimi anni (vedi bibliografia). Personalmente credo che la palma alla migliore interpretazione vada proprio a Kyle MacLachlan che ora finalmente capiamo perché è l’attore feticcio e preferito da Lynch – cinque le produzioni all’attivo. Statunitense di origini scozzesi e irlandesi, MacLachlan in Twin Peaks 3 da sfoggio di un’immensa e gigantesca bravura recitativa. Sarà che interpretare due personaggi diametralmente opposti possa portare a confondere gigioneria con recitazione, ma non ho mai creduto all’immedesimazione in stile Stanislavskij come unica nobile forma attoriale, bensì ho sempre creduto più nella maschera e all’attore come segno – mio abbozzo teorico non ancora sviluppato né trattato con serietà. Da qui, la convinzione che nelle mosse goffe e stralunate di Dougie Jones e nella monoespressività inquietante del Cooper posseduto, inquietante forse anche più di Hannibal Lecter nelle sue impercettibili trasfigurazioni in Bob, ci stia tutta l’arte e la grandezza dell’attore come segno.

Facile quindi intuire che questa prima macro-trama ci dà l’occasione da un lato di godere di prove attoriali stupende, in primis quella di Kyle MacLachlan, ma anche quella dello stesso David Lynch in duetti divertentissimi con Miguel Ferrer, il cinico ma non troppo Albert Rosenfield, oppure la perfezione solare di Naomi Watts e la freddezza di un’inedita Laura Dern che dà volto alla mistificata Diane – deludendone comunque le aspettative, ognuno si era immaginato la sua Diane; dall’altro lato ci permette di incontrare il Lynch più puro e più criptico, con passaggi sovradimensionali, doppelgänger, realtà parallele che se già da un punto di vista prettamente narrativo ingarbugliano in senso positivo la narrazione dando quindi un senso metafisico a ciò che vediamo, da un punto di vista estetico e linguistico permettono a Lynch di sbizzarrirsi in manifestazioni visive audaci e inaspettate.

Questa perfetta bizzarria visivo-narrativa, che strizza l’occhio all’espressionismo tedesco e al cinema delle origini come per ricercare l’embrione iniziale della magia del mezzo cinematografico, pur essendo palesemente magistrale nella sua realizzazione, allontana smisuratamente Twin Peaks 3 dalla serie originale. Il che, per me, è un segnale negativo, un disvalore che crea più delusione che soddisfazione. E qui rispondo alla seconda domanda.

Credo che se Twin Peaks 3 fosse restata saldamente ambientata a Twin Peaks con un utilizzo più massiccio del vecchio cast, più ovviamente volti e personaggi nuovi come quelli sapientemente scelti da Lynch, da Laura Dern a Naomi Watts, da Amanda Seyfried a Eamon Farren, da Tim Roth a Tom Sizemore, da Matthew Lillard a James Belushi, si sarebbe innanzitutto soddisfatto il palato di tutti gli appassionati storici e si sarebbe potuta creare una storia analoga che riproponesse le atmosfere, le sensazioni, le pulsioni e le estreme radicali emozioni della serie originale.

La trama ambientata a Twin Peaks vede principalmente coinvolto l’intero ufficio dello sceriffo Frank Truman, l’ottimo e perfettamente in parte Robert Foster, fratello del vecchio e storico Harry Truman interpretato da Michael Ontkean e inspiegabilmente fuori cast come la grandissima Piper Laurie e Lara Flynn Boyle la cui Donna con il tormentato amore per James, l’empatia omoerotica per Laura spezzata negli anni dell’estasi adolescenziale e le successive trasgressioni per vincere il dolore, l’avevano resa uno dei personaggi più belli e interessanti della serie originale. Con lo sceriffo arrivano i suoi storici collaboratori, come il mitico vice sceriffo indiano Hawk, interpretato da Michael Horse, uno dei personaggi più belli della serie storica come di questa terza stagione, la coppia Andy e Lucy che, al netto dei cambiamenti estetici portati dal tempo resta una coppia bizzarra e ben collaudata che vede addirittura nel personaggio di Andy uno dei principali del plot locale. In più, Bobby Briggs, anche lui uno dei personaggi non solo meglio tratteggiati della vecchia serie, ma anche ottimamente interpretato a suo tempo da Dana Ashbrook, torna nelle vesti di agente e padre di famiglia, benché separato. Lei ovviamente è l’amore di una vita, Shelly Johnson, la bellissima Mädchen Amick, che lavora ancora al Double R Diner insieme a Norma Jenning, bellissima donna, protagonista di una delle più belle storie d’amore mai viste, quella con Big Ed Hurley, ovvero Everett McGill, che invecchiato con malinconia, ci regala un’altra grande e sensibile interpretazione, diviso tra l’amore passionale per Norma e quello morale per Nadine che, coronato il suo sogno di sviluppare un prodotto per scorrere le tende senza rumore, s’innamora del Dottor Jacobi, altro gigante della prima stagione, a cui Lynch dà il compito di intervenire in furenti polemiche, veri e propri attacchi radicali contro politica, società e governo USA. Uno spasso.

Tra queste storie anche quella di un anziano Benjamin Horne, come al solito impeccabile nell’interpretazione di Richard Beymer, insieme al fratello Jerry, invecchiato e sempre strafatto che si perde nei boschi e non trova la via di casa. C’è spazio anche per James Hurley, nipote di Ed e grande amore di Laura Palmer. Lo troviamo ugualmente invecchiato e smagrito, che passa da cantante ad agente dello sceriffo nel giro di qualche puntata. Più fugace purtroppo l’apparizione del dottor Hayward, interpretato da Warren Frost, morto a 91 anni nel 2017 – uno dei personaggi più belli della vecchia serie che avrei tanto voluto fosse l’assassino di Laura Palmer, o lui o Bobby o Benjamin Horne o il Dottor Jacobi (anche se la scelta del padre è stata azzeccatissima, soprattutto per la magistrale interpretazione di Ray Wise).

A sorpresa torna pure Al Strobel, ovvero Mike, l’uomo senza un braccio, così come rivivono sia Bob grazie al materiale riciclato dagli episodi degli anni 90, sia David Bowie che in Fire Walk With Me (1992) interpretava Phillip Jeffries l’agente speciale FBI che insieme a Gordon Cole incontrava per la prima volta nel 1975 le forze misteriose e malefiche che porteranno al mistero ormai noto di Laura Palmer – anche se questa informazione viene data durante la terza stagione. Da Fire Walk With Me torna anche Carl Rodd, interpretato dall’immenso Harry Dean Stanton, corpo attoriale che rappresenta la vecchia dolce America, quella degli ultimi, quella dei buoni e degli onesti tanto che nel suo personaggio che si china sul corpo morto di un bambino insieme alla madre, che si preoccupa delle liti che sente provenire dalle baracche del vicinato, che dà soldi al vicino di caravan perché non vada a vendere il sangue per mangiare, c’è tutta la poesia e la magia del realismo rurale che Lynch aveva già dipinto in The Straight Story (1999), dove non a caso appare lo stesso Stanton.

Ritornano anche due delle tre principali protagoniste, ognuna a modo suo, di Twin Peaks: Sheryl Lee torna nei panni di Laura insieme al padre Leland Palmer, e Sherilyn Fenn in quelli di Audrey Horne, sposata con un freak e madre di un giovane psicopatico, lei che prima dell’esplosione in banca era bella, misteriosa e sensuale è oggi invece una bolsa casalinga disperata. All’appello manca purtroppo Lara Flynn Boyle.

Impagabile infine la performance di Grace Zabriskie. Volto perfetto per un incubo ad occhi aperti, fin dai primi episodi della serie storica Sarah Palmer, madre di Laura, è un personaggio ammantato di terrore, sensitivo a tal punto da vedere Bob dietro le sbarre del letto della figlia – l’inquadratura più inquietante della mia adolescenza – e che nella terza stagione trasborda la follia e diventa un nuovo simulacro di terrore.

Tra i volti nuovi, a parte i nomi più conosciuti che non hanno certo tradito le aspettative – anche se avrei preferito una parte più importante per Amanda Seyfried – quello che credo abbia lasciato maggiormente il segno, a parte l’incredibile agente Freddie “pugno di ferro” Sykes, è stato quello di Eamon Farren nel ruolo di Richard Horne, figlio di Audrey e nipote di Benjamin. Non solo il suo viso alieno e felino già lo definisce come carattere borderline, ma la nevrosi che ne gestisce il gesto attoriale abbinata al personaggio stesso, un folle pazzo criminale che dà pure della puttana alla nonna per strapparle dei soldi e che investe senza pietà un bambino pur di sfuggire alla polizia, ne fanno uno di quei personaggi che difficilmente si possono dimenticare, tanto sarà forte il ricordo del segno attoriale che ha lasciato – nonostante l’uscita di scena inaspettata e poco utile narrativamente.

Risposte.

Analizzate rapidamente le traiettorie narrative delle due trame principali, che si uniscono poi nell’episodio 17, con i loro personaggi e attori e attrici ad interpretarli, posso rispondere alle mie iniziali domande.

David Lynch è uno tra i maggiori autori dell’epoca moderna. Rappresenta l’enigmatico attraverso follie visive e scelte linguistiche non allineate. Tutto quello che la realtà nasconde ai nostri occhi, Lynch riesce in un qualche modo a concretizzarlo in figurazioni grottesche o linguaggi al limite. Tra ironico, grottesco, bizzarro e horror, David Lynch dà materia al non-rappresentabile. Di questo va detto che Twin Peaks 3 è una delle sue vette autoriali più alte, anche perché nuovamente, come aveva fatto nel 1990, scardina dall’interno le regole della serialità televisiva, decostruendo la linearità delle storie e la loro narratività, utilizzando le figure del proprio universo narrativo come ambiguità tra significazioni e significanti.

L’ultimo episodio, Part 18, è invece quasi del tutto slegato dalle precedenti puntate e sembra prefigurare un nuovo inizio o addirittura palesare la fine definitiva della serialità che tornando su se stessa ne annulla la progressione. Il tema del viaggio, realizzato con tempi lunghi e fascinosi, è centrale in questo ultimo episodio, tanto quanto la spiazzante rivelazione finale che in casa di Laura Palmer non esiste nessuna famiglia Palmer, ma altre persone con altri nomi – Tremond e Chalfont, i nomi con cui è conosciuta la vecchia signora della Loggia Nera apparsa già in Fire Walk With Me, film che sembra essere alla vera base di questa terza serie e non le due stagioni della serie storica (pensiamo a Phillip Jeffries, Carl Rodd, i summenzionati Mrs. Tremond e Chalfont, l’uomo con la maschera da picchio che intravediamo per qualche secondo scendere le scale nel penultimo episodio, e infine il tema cardine dell’elettricità e gli onnipresenti cavi dell’alta tensione).

Anche la domanda finale dell’Agente Cooper getta un velo di mistero che ci lascia interdetti: «In che anno siamo?». Forse David Lynch vuole dirci che pur chiudendo un ciclo – con tutto ciò che porta con sé la simbologia del cerchio – il male e il bene continueranno a sfidarsi? Che non c’è soluzione ai mali del mondo? Che l’uomo è condannato a soffrire? E in ultimo, non vuole forse dirci che anche la serialità televisiva è morta? Tra un lungo viaggio di ritorno e la destabilizzazione dell’angoscia finale dove nulla è al suo posto – il che genera crisi, interdizione e paura – Lynch firma un nuovo capolavoro visivo, linguistico, mediale e narrativo – nonostante la struttura antinarrativa sia la sua principale firma estetica.

L’altra faccia della medaglia è che chi ha amato le prime due stagioni di Twin Peaks, ovvero chi ha assimilato, perfino inglobato quell’universo, quei personaggi, quei luoghi, quelle atmosfere, quella malinconia fatta di boschi freddi, maglioni pesanti, tazze di caffè, bar di periferia, strade bagnate e segherie, avrebbe voluto tanto rivivere quell’esperienza. In buona parte però non è stato così. Innanzitutto, in questi venticinque anni sono venuti a mancare attori come Frank Silva (1995), Jack Nance (1996) e Don Davis (2008), molto importanti per l’economia narrativa di Twin Peaks se non addirittura fondamentali. A loro vanno aggiunti Catherine Coulson (2015) e Warren Frost (2017) che hanno fatto in tempo a partecipare alle riprese dal settembre 2015 all’aprile del 2016. Inoltre, ed è un mistero non ancora svelato, non hano preso parte alla reunion attori fondamentali della serie storica come Michael Ontkean, Lara Flynn Boyle, Piper Laurie e Michael J. Anderson – viene addirittura richiamata sul set Andrea Hays nei panni di Heidi, la cameriera tedesca del Double R Diner.

Queste esclusioni, sommate alla palpabile preferenza di David Lynch verso il plot dedicato all’Agente Cooper, al suo doppio malvagio, a Dougie Jones, alla madre di tutti i mali, Judy, alle caffettiere e all’elettricità – che crea un collegamento tematico e motivale molto forte con Fire Walk With Me – mettono il plot “storico”, ovvero i fatti accaduti e che devono accadere a Twin Peaks, in secondo piano. Viene così a perdersi quel sentimento di ritrovamento e nuova rivelazione che i fan più accaniti si aspettavano, anche se certamente non saranno stati delusi dalla grandezza di Lynch e dai suoi nuovi voli filosofici. Lamento però la mancata riproposizione di un universo così iconico quanto ben sedimentato nell’immaginario collettivo che avrebbe sicuramente portato in un’altra direzione l’idea lynchana di base, ma non necessariamente in una direzione sbagliata.

Immaginiamo per esempio che tutta la terza stagione fosse ruotata intorno al demone Judy, incarnata in Sarah Palmer e che la traiettoria narrativa prevedesse nuovi orribili omicidi su cui indagare, nuove sparizioni, altre dimensioni, logge e portali, e ovviamente la lotta tra il Cooper buono e il suo doppio malvagio, oltre che il tentativo di salvare Laura Palmer tornando di colpo a quel 23 febbraio 1989. Sicuramente sarebbe stata una serie meno rivoluzionaria di quella che abbiamo visto, ma avrebbe centrato maggiormente l’operazione subliminale che tanti affezionati delle prime stagioni ricercavano da venticinque anni. La conferma, almeno per chi scrive, è che alcuni tra i momenti più belli della terza stagione sono strettamente legati al plot storico. I momenti che mi hanno messo maggiormente i brividi sono stati pochi, su tutti il momento in cui Bobby Briggs entra in sala riunioni, vede la foto di Laura e lentamente, senza  sapersi controllare, inizia a piangere mentre il tema di Badalamenti ci strattona il cuore per l’ennesima volta. Oppure quando Dale Cooper esce dal coma e ritroviamo finalmente il vecchio Agente Cooper delle prime stagioni. Ma anche l’amore tra Norma e Big Ed, quell’ultimo bacio che finalmente chiude positivamente una lunghissima e bellissima storia di amore spiccio, rurale, comune, ma intenso come solo la normalità può essere.

Invece no. La scelta del regista non cade direttamente su Twin Peaks, di cui sicuramente ci regala momenti bellissimi e anche angoscianti, bensì su Las Vegas, Buckhorn e altri luoghi sparsi qua e là in cui si sviluppa la trama del doppio dell’Agente Cooper. Io credo sia un peccato, e sono un po’ deluso da questa scelta. Avrei preferito un Twin Peaks 3 incentrato su fatti e misteri in luogo, e non quello che abbiamo visto in questa terza stagione, nonostante stiamo parlando di un capolavoro, un’opera che farà parlare e che impegnerà studiosi per gli anni a venire. Di questo sono consapevole e grato al regista. Ma è talmente forte il mio amore per la serie originale, vista che avevo solo 13 anni con tutto ciò che ne consegue, che non posso pienamente valutare con positività questa terza stagione, troppo lontana per gusto e sensibilità dalle atmosfere voluttuose, delittuose, fatalistiche e coinvolgenti delle prime due stagioni.

Interpretazioni.

Interpretare o non interpretare? Anche in questo caso ci sono due modalità di visione di Twin Peaks 3 come di tutta l’opera lynchana: o smontare ogni singola sequenza in più scene e le scene in più inquadrature per analizzare ogni singolo dettaglio e trovarci necessariamente una spiegazione o un significato simbolico, oppure vedere le opere di David Lynch, e soprattutto questa terza stagione di Twin Peaks come grandiose opere visive e visionarie, crogioli dove rivivono immaginari impossibili da rappresentare se non grazie all’estro creativo del regista-filosofo e quindi godersi l'opera come puro oggetto estetico senza ricercare nessuna logica, nessuna spiegazione.

In rete già piovono interpretazioni e scenari futuri. C’è chi vede nella scena finale di Part 18 le basi per un nuovo inizio, ovvero, la lotta tra il bene e il male non avrà mai fine e nella ciclicità degli eventi e nella loro ripetizione degli “uguali differenti” tipica di Lynch risiede l’incipit per infinite storie, infiniti racconti, personaggi, luoghi, dimensioni e quindi anche stagioni televisive, come appunto commenta D’Amico (2017): «Il cortocircuito temporale provocato dall’intervento di Phillip Jeffries ha scaraventato Dale Cooper in una dimensione alternativa e la sua domanda angosciata che conclude l’episodio (“Che anno è questo?”) apre tutta una serie di possibilità per un eventuale futuro dello show». Altri invece vedono nello stesso finale l’atto di chiusura definitiva di Twin Peaks che non avrà mai altri seguiti, proprio perché chiudendo con una nuova riapertura del cerchio, Lynch sigilla il suo pensiero pessimista, e cioè la ciclicità della lotta tra bene e male che non avrà mai fine, quindi inutile tentare nuove narrazioni. Lo sintetizza bene Mainardi (2017): «Il finale non è aperto, non apre i cerchi che la prima parte dello stesso aveva chiuso, ma li rinsalda nella loro immutabilità: Twin Peaks è finito, basta film o stagioni, così si chiude un’opera autoriale che ha tutti i crismi per andare a inserirsi nella già straordinaria filmografia di David Lynch come un’opera d’arte cinematografica a tutti gli effetti. Sta a noi concepire la pienezza della notte finale, quella d’amore tra Cooper e Diane, godendo della conclusione pronti con forza a ricominciare il ciclo. Totale. Definitivo».

Davanti a questa chiusura tombale sul futuro di Twin Peaks io rispondo con incertezza. Da un lato credo che il finale voluto da Lynch sia interpretabile in due modi: o di conclusione definitiva della serie o di nuovo inizio, ma questo dipende solo dalle volontà del regista e dell'emittente; dall’altro credo che proprio per l’alta qualità del prodotto, l’immaginario iconico che il regista è in grado di creare, i libri e gli studi che si accumulano e si accumuleranno sulla sua opera, Twin Peaks potenzialmente potrebbe anche non avere mai una fine, ma sicuramente necessita almeno di una nuova stagione, maggiormente incentrata sulla cittadina di Twin Peaks e i personaggi storici della serie.

Un altro aspetto interpretativo molto interessante e suggestivo è un’interpretazione che, stando a Il Post (2017) si è aggiunta a quelle già esistenti in rete, ovvero «[…] ipotizza che la nuova stagione riveli in certi suoi punti una realtà alternativa a quella di Twin Peaks che non è tanto una dimensione parallela, quanto la vera realtà, quella in cui viviamo noi spettatori». Gli indizi a conferma di questa tesi sono poi elencati dalla redazione de Il Post ed effettivamente, se presi singolarmente e non più contestualizzati con altri segni figurativi e indizi di altra natura sparsi lungo l’arco dei 18 episodi, farebbero proprio pensare che l’intenzione ultima di Lynch fosse questa. Io azzardo addirittura a supporre che l’intenzione di Lynch fosse quella di trasportare nella vita reale Dale Cooper e Laura Palmer. Non solo quindi inscenando una realtà, sempre fittizia, a rappresentazione della realtà empirica nella quale viviamo – tale è la “vera realtà” vista in Part 18 – ma la realtà vera e propria in cui la casa dei Palmer è abitata da Mary Reber, attuale proprietaria della casa sita al numero 708 della 33esima strada di Everett, Wyoming. E in questo modo, con lo sconfinamento di personaggi finzionali nella realtà empirica, si arriva alla chiusura definitiva della serie televisiva. Peccato che a scardinare questa supposizione ci pensi proprio la realtà finzionale di Twin Peaks 3 che rinomina Mary Reber come Mrs. Tremond e i precedenti proprietari come i Chalfont, i due nomi con cui è conosciuta l’anziana signora della Loggia Nera. E tutto si riapre.

In conclusione, David Lynch ha dato prova di essere un maestro insuperato dell’arte cinematografica, intesa primitivamente, come arte originaria del racconto per immagini, dove le immagini possono più del testo e del montaggio narrativo, più della plausibilità e dello spiegazionismo tipici del mercato narrativo contemporaneo influenzato dalla crisi. Non solo, ha dimostrato di saper rivoluzionare il linguaggio seriale a venticinque anni dalla sua prima rivoluzione e a settant’anni di età – Lynch è del 1946. Purtroppo ha preferito una traiettoria narrativa che si è scostata molto dall’originale, anche se poi è Twin Peaks il teatro dello scontro finale tra Bob e Dale Cooper, impedendo a chi ha sedimentato Twin Peaks, i suoi luoghi, i suoi personaggi e la colonna sonora di Badalamenti nel proprio animo e nel proprio immaginario adolescenziale, di ritrovare le stesse emozioni proiettate sul piccolo schermo. Resta comunque il fatto che qualche brivido di terrore, qualche vertigine spaziotemporale e qualche lacrima nostalgica Lynch li ha regalati a ogni spettatore, impreziositi di tutte le novità visive, linguistiche o narrative apportate in Twin Peaks 3 detta The Return.

 

BIBLIOGRAFIA.

 

BARNEY, R. A. (ed.), (2017), Perdersi è meraviglioso [trad. it], Roma, Minimun Fax.

D’AMICO, Valentina (2017), in rete http://movieplayer.it/articoli/twin-peaks-3-episodi-17-18-la-nostra-recensione-del-finale-del-revival_17882 (ultima consultazione: 10 settembre 2017).

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FROST, Mark (2017), Le vite segrete di Twin Peaks. Ediz. Illustrata, Milano, Mondadori.

GAMERRO, Paolo (2012), Il caso Twin Peaks, Roma, Universitalia.

Il Post (2017), in rete http://www.ilpost.it/2017/09/08/finale-twin-peaks-interpretazioni (ultima consultazione: 10 settembre 2017).

MAINARDI, Alvise (2017), in rete http://www.nonsolocinema.com/twin-peaks-3x17-3x18-the-return-xvii-xviii.html (ultima consultazione: 13 settembre 2017).

MANZOCCO, Roberto (2010), Twin Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, Milano, Mimesis.

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PARLANGELI, Andrea (2015), Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch, Milano, Mimesis.

RODLEY, Chris (ed.), (2016), Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita [trad. it], Milano, Il Saggiatore.

TEDESCO, Antonio (2017), È accaduto a Twin Peaks e sta per accadere ancora, Napoli, Kairós.

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