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OLTRECONFINE SPECIALE CANNES: GIORNO 5 – QUELLO DELLA FOLLIA, CHE TROVA IN ALMENO DUE AUTORI TRA I MIEI PREFERITI, LANTHIMOS E VAN DORMAEL, LA FONTE IDEALE PER UNA ADEGUATA RAPPRESENTAZIONE.
di alan smithee ultimo aggiornamento
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In Cannes la mattina una schiera di belle ragazze già dalle 9 pedala o scorrazza sui pattini dandoti il buon giorno con riviste di cinema internazionali che parlano dei film delle varie rassegne, dei film in vendita al mercato della distribuzione (in Cannes uno dei più grandi al mondo in occasione del festival), e di ciò che potrà essere messo in distribuzione nei prossimi mesi.

E fa piacere caricarsi di riviste patinate, da utilizzare comunque anche come passatempo per bruciare i minuti, o meglio le ore di attesa in fila, circostanza di cui vi ho già parlato nei giorni scorsi.

Ma non c'è Variety, Hollywood Reporter, Ecran totale o Screen che riesca a scalfire l'autorità e l'ufficialità del vero, unico “daily “ festivaliero rappresentato da “Le Film Francais”.

Ecco qui gli aggiornamenti sui gradimenti da parte della stampa sui film del Concorso e de Un Certain Regard.

Se riuscite a vedere qui sopra, Mia madre di Nanni Moretti, presentato ieri ufficialmente sulla “montée des marches”, appare nettamente il più gradito ed anche oggi, completando ulteriormente la scheda dei film visti in questa giornata, il film italiano resta ufficialmente il favorito, compensando in qualche modo il mancato favorevole accoglimento per la pur riuscita ed emozionante opera di Garrone.

Nulla di tutto ciò comunque, almeno in via teorica, può e deve voler dire qualcosa: una giuria seria ed indipendente infatti, deve tenersi alla larga da condizionamenti e giudizi esterni, pur se provenienti da persone od organizzazioni titolate e competenti.

 

Oggi, quinta giornata di festival, il trait d'union che unisce i quattro interessanti film che riesc a fare miei è senza dubbio la FOLLIA, le bizzarrie dell'esistenza, che vanno da misteri insoluti ed irrisolvibili a tenere e simpaticamente blasfeme riletture delle antiche scritture, da giochi al massacro tra vittima e preda rinchiusa e circondata, alle deformazioni sociali che snaturano i rapporti interpersonali creando mostri sia tra i fautori di un sistema, sia dalla parte degli oppositori.

Nel primo caso mi riferisco al film d'esordio nel lungometraggio di Clément Cogitore, presentato alla Semaine de la Critique. THE WAKHAN FRONT è un film ambizioso e, a tratti, suggestivo ed avvincente che unisce molte sensazioni e concetti maturati altrove in opere letterarie e cinematografiche disparate.

Si racconta di un drappello di soldati francesi in Afganistan, a fine 2014 mentre il Governo sta procedendo ad un graduale ritiro delle truppe. Allo scrupoloso capitano Bonassieu viene dato incarico di sorvegliare una zona di confine col Pakistan, ancora occupata da milizie talebane ingovernabili, nei pressi di una zona pietrosa e montana chiamata Wakhan.

La vita nel fortino di latta scorre monotona, almeno fino a quando alcuni soldati, uno dopo l'altro, misteriosamente cominciano a sparire improvvisamente. La colpa la si dà ovviamente ai fanatici nemici asserragliato attorno, ma quando questi ultimi confessano che anche i loro uomini stanno sparendo improvvisamente, ed adducono a strani riti ancestrali gli inspiegabili eventi, offrendo anche un rimedio casereccio a base di montoni legati in zone strategiche ed aventi il potere di impedire tali scomparse, per le truppe in missione non resta che difendersi da un nemico micidiale ed invisibile il tempo che gli elicotteri giungano a riprenderseli.

Tra echi buzzatiani de Il deserto dei tartari, e carpenteriani de La cosa, tra paesaggi spogli e pietraie lunari che inquietano ma affascinano pure, il film di Cogitore ha spunti davvero allettanti e si avvale di un cast di giovani attori credibili e in parte, tra cui primeggia il noto e ottimo Jérémie Renier , affiancato dall'attore de Les Combattants Kevin Azais, ma forse non osa quanto dovrebbe e rimane un po' in sospeso tra affascinanti ipotesi esoteriche accennate ma non adeguatamente sviscerate, ed un interessante legame di taglio quasi documentaristico con la realtà della vita di caserma nelle zone a rischio come l'Afganistan.

VOTO ***

 

La Quinzaine quest'anni ha l'onore di accogliere nella sua vetrina il gran regista belga Jaco Van Dormael, l'autore di Toto l'heros, e, nel suo complesso, di quattro film memorabili in più di vent'anni e la capacità di confrontarsi ogni volta con uno stile unico e originale che spazia dalla favola più smaliziata e sentimentale al cupo noir in cui vita e morte si alternano come in un tragico fatale rimpiattino mosso dal caso e dal destino.

Con THE BRAND NEW TESTAMENT il gran regista belga tralascia il colossal, peraltro di ottima fattura, che gli ha fatto impiegare oltre dieci anni per ultimare Mr Nobody e fa ritorno alla città natale di Bruxelles per immaginarla dominata da un Dio capriccioso e volubile, che agisce tramite un suo computer disponendo di vita e di morte come un suo arbitrio totale.

A casa costui è un padre autoritario e scontroso con moglie sottomessa e teledipendente e una figlioletta di nome Ea che, esasperata da tanta cattiveria, decide di vendicarsi. La piccola sabota la macchina paterna e comunica a tutti i cittadini via sms quanto rimane loro da vivere, in un tragico countdown che spiazza e impone bilanci spesso imminenti.

La ragazza si impone di riscrivere, con l'aiuto di un clochard, un nuovo testamento più giusto e razionale soprannominando tra la popolazione, sei nuovi apostoli scelti a caso tra la folla.

Come (o quasi) nel capolavoro di Toto l'heros, Van Dormael torna dunque alla favola cupa e sanguigna che sprigiona sarcasmo e battute aspre ma efficaci sui limiti e sulla pochezza della specie umana, facendo riaffiorare il lato nascosto ma buono di una umanità esasperata ma che non si arrende.

Benoit Poelvoorde è Dio in versione comicamente ed irresistibilmente blasfema e capricciosa, Catherine Deneuve amoreggia con un gorilla che la rende felice dopo anni di grigiore ed alta società, Yolande Moreau moglie di Dio irresistibile e trascinante. The brand new testament una perla che ci fa ritrovare un cineasta raro e parco al suo stato migliore. In sala un delirio di applausi per un film che ricorda l'entusoasmo dello scorso anno per Whiplash. Un film di cui sentiremo parlare a lungo.

VOTO ****

Sempre alla Quinzaine si celebra il ritorno di un autore giovane ma in odore di mito: Jeremy Saulnier che dopo essersi fatto notare con il cupo horror Blue Ruin proprio nella medesima rassegna del 2013, ed essere stato notato e preteso da Emanuela Martini per il suo TFF del medesimo anno, ora ritroviamo in forma con un nuovo cupo e teso horror-splatter nel claustrofobico GREEN ROOM.

Una band di musica hard rock, gli Ain't Rights, si reca in una sperduta località dell'America rurale per un ingaggio allettante dopo un tour a dir poco fallimentare.

Arrivati nel posto, i quattro si esibiscono, ma al termine, accidentalmente, assistono al brutale omicidio di una ragazza nel back stage del fetido locale. Testimoni oculari del fatto, i quattro si asserragliano nel locale chiuso e senza via d'uscita pretendendo di uscire solo con l'arrivo della polizia, che guarda caso arriva tardi e viene fatta andare via con un bieco stratagemma.

In trappola, i quattro, con una quinta ragazza amica dell'assassinata, dovranno cercare di sopravvivere ad un'orda di assassini spietati che cercherà in tutti i modi di stanarli.

Horror cupo e fosco, con punte gore che fanno esaltare gli appassionati in sala.

Horror medio, ttraente ma anche compiaciuto e pieno di sé, che tuttavia conferma le doti artistiche (e la furbizia) di un giovane cineasta forse un po' sopravvalutato, ma destinato a lasciare il segno nel mondo dell'horror.

Anton Yelchin, Imogen Potts e addirittura Patrick Stewart sono le punte di diamante di un cast efficace e convincente che vede impegnato nuovamente l'esilarante e disarmante Macon Blair, pure qui impegnato in un ruolo tragicomico che gronda ironia e sangue con la stessa copiosa, eccessiva, meravigliata naturalezza.

VOTO ***

Ma a Cannes, in Concorso, è tempo di altri tipi di follia: una rappresentazione che crea disagio e disgusto, soprattutto tra coloro che ancora non conoscono questo terribile e devastante, irresistibile autore greco che è Giorgos Lanthimos. Reduce dalla mirabile e terribile trilogia di Kinetta, Alps e Kinodontas, ritroviamo Lanthimos coinvolto in una coproduzione internazionale affollata di star o volti noti, per il suo controverso e strappa polemiche THE LOBSTER.

In una società cupa e inquietante di un futuro sinistramente prossimo, coloro che, raggiunti i quarantotto anni, non fossero ancora stabilmente accoppiati, vengono condotti presso una elegante casa di cura per avere a disposizione ancora poco più di un mese per trovare l'anima gemella: o venire tramutati in un animale qualsiasi, a propria scelta. L'aragosta, (the lobster, è l'animale in cui ha scelto di trasformarsi il nostro compassato ed arrendevole protagonista, spiegandone altresì le svariate motivazioni).

Un uomo, in particolare, con al guinzaglio quello che fu suo fratello, viene condotto della struttura ma, non trovando con chi accoppiarsi stabilmente, si dà alla fuga nei boschi unendosi ai ribelli. In questo contesto scoprirà che l'organizzazione eversiva ha regole non meno folli e letali della società “regolare”, e nasconde follie e manie non meno letali per chi sgarra o non si dimostra tollerante con le nuove imposizioni: innamoratosi di una affascinante dissidente, l'uomo verrà indotto a sacrificare il senso della vista per poter valorizzare le percezioni rimanenti, considerate troppo sottostimate a favore del principale senso visivo che occulta gli altri.

Eccesso, provocazione, metafora sin troppo esibita di una deriva dove una esasperazione si combatte con un suo opposto e speculare suo contrario sentimento, The lobster è un quarto capitolo coerente di una cinematografia forte e dirompente che crea disgusto e sconcerto senza porsi alcun problema di rendersi accattivante.

Lanthimos si dimostra un grande autore, anche se la produzione internazionale ed il gran cast a disposizione (da Colin Farrel ingrassato ed imbolsito per l'occasione, a Rachel Weisz, Lea Seydoux, John C. Reilly quest'anno onnipresente in Croisette, Ben Whishaw, Ariane Labed ed altri) sembra rendano più macchiettistico e meno inquietante l'atmosfera che rendeva unici i suoi tre capisaldi della deriva umana.

VOTO ****

 

 

 

 

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