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The Lady, Luc Besson e le donne. Che donne.
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 "Il segreto della mia energia é nella mia condizione di eterno innamorato. Del cinema, che non perderà mai la capacità di farci sognare. E delle donne, più interessanti e più vicine al segreto dell'esistenza di noi uomini".

Così dichiarava Luc Besson in un'intervista a "La Repubblica" del novembre scorso, con la passione immutata di un regista volitivo e il carisma stropicciato di autore consumato. Sì perché Besson, nel corso di una carriera ormai quasi trentennale, ne ha viste tante. Di donne, soprattutto: la fascinazione dell'autore francese per il gentil sesso d'altronde é risaputa, ancestrale, totale, incondizionata. Delle (sue) donne Besson ha sempre ritratto l'anima guerriera e implacabile, spregiudicata e sovversiva. Gentil sesso mica tanto, in fin dei conti. Sesso forte, perlappunto, vigoroso, corazzato, dal quale lo stesso Besson ama farsi travolgere amabilmente, appagato e sornione. Ultima eroina cinematografica in ordine di tempo a rimpolpare la sua "donnaiola" filmografia é la sagace, stuzzichevole e smaliziata protagonista di "Adèle e l'enigma del faraone": Virgine Silla é un'archeologa brillante, smaliziata, vagamente mascolina, prorompente e seducente. Il prodotto finito funziona a corrente alterna, ma con una protagonista così in fondo si perdona qualsiasi cosa, anche ad un autore dannatamente svogliato come Besson, che troppo spesso (di recente) si ritrova ad annaspare tra "curiosi" influssi immaginifici, fumetti d'annata, favole per bambini e lampi di fantasy retro.

Il regista di Nikita, Léon e Il quinto elemento nel frattempo ha però quasi ultimato (é questione di poco, dovrebbe farcela per il Concorso del Festival di Cannes) la sua nuova fatica. "The Lady", un titolo che esemplifica per via quasi antonomastica l'imprescindibile matrice femminile del cinema di Besson, é, perlomeno nelle premesse, un biopic sulla leader dell'opposizione birmana Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace nel '91, liberata il 13 novembre scorso dopo più di sette anni di arresti domiciliari. Aung San Suu Kyi è diventata nel corso della sua prigionia il simbolo della lotta per la democrazia, un'icona, un baluardo di speranza e volontà tenace, ferma e incorruttibile. Certo, il tasso "d'impegno" può sempre forse eccessivo per le corde tautologiche di buona parte della filmografia del regista-scrittore francese e per la sua tendenza più recente a un cinema d'evasione fanciullesca, ma tale elemento di "novità" non può che accrescere la curiosità intorno a questo progetto ormai in dirittura d'arrivo. A interpretare Aung San Suu Kyi, Michelle Yeoh, tra le stelle più incantevoli del cinema di Hong Kong e purtroppo ancora colpevolmente poco conosciuta in Occidente (complice anche la mancata partecipazione a Matrix, il film dei Wachowski, non il programma di Vinci). Apprezzabile il suo tentativo recente di inoltrarsi anche in certi crismi alieni al cinema orientale, ma per lei il ruolo della consacrazione hollywoodiana deve ancora arrivare. Difficilmente potrà trovarlo con un regista produttivamente autarchico e volumente posto(si) ai margini come Besson, ma la parte era davvero affascinante e dall'attualità fin troppo pregnante per tirarsi indietro. E poi, come resistere al fascino multiforme di Luc Besson, capace di distillare perle di cotanta, illuminante saggezza ? "Ci sono cose che fai tra quattro mura, come il sesso. E cose che fai fuori, come passeggiare al parco o guardare un film". Chapeau.

 

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