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L'uomo ferito

Regia di Patrice Chéreau vedi scheda film

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La recensione su L'uomo ferito

di EightAndHalf
8 stelle

Il dinamismo dei corpi che si dimenano sulla scia dell’onda tracciata dalla carne e dal desiderio frantuma la logica narrativa e filmica per inabissare lo spettatore in un contesto sordido, passionale e straordinariamente invadente. Lo strato grigio e marroncino non fa certo da filtro, per immagazzinare al suo interno l’esplicitazione degli impulsi più bassi dell’individuo, ma contrae la visione dello spettatore piegandola alla mortuaria sovreccitazione di una regia che si dimostra incredibilmente attuale nello sfidare il voyeurismo e nel mettere in ginocchio le certezze più immediate, rivelando come si possa fare cinema positivamente e costruttivamente provocatorio senza cedere allo sperimentalismo alla fin fine più innocuo (come molti prodotti moderni) ma ricorrendo al buon vecchio ermetismo contenutistico, fattore destabilizzante nella visione di un film tutto carne e poco materia grigia. Basterebbe una visione distratta per farsi ipnotizzare da un movimento oscillante e morbosamente accattivante, quello della scoperta della propria sessualità in contrasto con la rigidità delle proprie origini borghesi. Nel caos, infatti, di una stazione, da cui deve partire la sorella del protagonista Henri, mentre la famiglia cerca di rimanere coesa nella confusione e nella sporcizia, Henri finisce per baciare appassionatamente un misterioso uomo violento e bisessuale che si presenta come poliziotto ma picchia le persone, afferma di provare affetto per Henri ma poi scompare, dichiara sempre ciò che sta facendo e anche tutto il contrario, portando a termine entrambe le azioni inversamente proporzionali, gettando sia noi che il povero Henri in un intersecarsi di situazioni che sono sempre più affondamento nei muscoli, nelle carni e nella tensione orgasmica priva di fondamento.

 

Fitto di situazioni talvolta ellittiche talvolta concentrate talvolta vuote e contemplative, Chéreau riflette sull’identità ma fa morire quella sua stessa riflessione dimostrando disinteresse nei confronti di qualsiasi struttura o sovrastruttura, e trasformando la Francia del suo Homme blessé in un lurido incrocio di bestialità umane, mai realmente positive né negative, ma sempre pulsanti, viventi, vibranti sotto l’insipido e il lercio. Se il cinema normalmente getta nel sogno, L’homme blessé getta nella realtà di noi stessi conducendoci a provare la stessa passione incontrollata del suo regista e del suo protagonista, giovane inconsapevole della vita e ben presto consapevole della morte. Un film che potrebbe definirsi barbosamente scettico, se non fosse che presto il disinteresse nei confronti della trama trionfa, e si finisce per riconoscere non più personaggi ma volti, espressioni, attrazioni, senza più curarsi delle motivazioni né delle intenzioni psicologico-caratteriali. L’operazione di Chéreau è tanto più accurata quanto più rivela una costruzione dietro la struttura di un film che arriva invece immediato, a priori, investendo lo spettatore e stringendolo in una morsa destata miracolosamente dall’asettico ruvido candore della regia. Così il cinema ritorna alla fonte, la pellicola comincia a

sudare e ad appiccicarsi alla nostra memoria, e noi usciamo dalla sala che non siamo più gli stessi.

 

L’homme blessé è “la storia d’amore necessariamente asimmetrica tra un uomo che vorrebbe dare la sua amicizia all’unico ragazzo che vorrebbe fare di lui il suo unico amore” (Daney). Dopotutto, è cinema della disillusione. Ma diversamente da quanto dice Daney, il film è talmente spiraliforme e talmente avvolgente che non si avverte nessun tipo di teatralità (seppur intesa nella maniera particolare in cui la intende il critico francese, cioè nei termini di un evidente intervallo “di quinte” fra una sequenza e un’altra), ma una successione di visioni dimentiche del loro senso e interessate solo allo scopo ultimo del soddisfacimento della carne, dello sguardo.

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