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Barfly

Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film

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La recensione su Barfly

di Kurtisonic
5 stelle
Se ogni fase della storia cinematografica si distingue per caratteristiche che si discostano anche violentemente dalla precedente, gli anni 80 non possono certo nascondere quell’uso preponderante dell’artificio tecnico, degli effetti speciali, dell’allontanamento dalla realtà almeno per le pellicole di grande richiamo. In quelli che sono tuttavia segmenti temporali abbastanza limitati e discutibilmente contrassegnati da critica e pubblico, c’è sempre la tendenza e la necessità di recuperare una fetta di spettatori potenziali, offrendogli spunti e materiale visivo rivolto all’indietro, mirato al riflusso nostalgico che funzioni da lettore che liquida un presente e un passato che non sa giudicare serenamente in nome di una supposta diversità ideale. Barfly di Schroeder non sarà nato con questi presupposti ma si pone come uno dei più classici esempi, individuando un autore letterario in auge in quegli anni la cui produzione scritta viene elevata a rango nobile senza la verifica del tempo. Il film narra le vicissitudini dell’alter ego di C.Bukowski , uno scrittore in preda all’alcool e in rotta di collisione con la società dei consumi, tale Harry Chinaski. Catalogato allora come un fenomeno letterario, Bukowski è stato erroneamente accostato al periodo e agli scrittori post beat, in realtà egli rappresenta un caso unico nel panorama americano, lontano dall’epica della beat generation e assai diverso (ma non per questo privo di valore e di originalità) da quei minimalisti che nel descrivere la quotidianità delle piccole cose ne hanno tratto la loro essenziale contraddizione. Bukowski e di riflesso la sua creatura Chinaski ripresa nel film, sono dediti alla celebrazione della verità nascosta nell’alcool e nel sesso, ma quest’ultimo almeno in Barfly non trova troppo spazio, forse per un limite imposto dalla traduzione del testo, cosa che invece è riuscita ad un autore nostrano M.Ferreri, che con Storie di ordinaria follia ha fornito un ritratto più completo del “maitre a penser” dello scrittore. B.Schroeder deve da subito conciliare quella che sarà la traccia costante del film, cioè far convogliare l’alticcio protagonista nella sua materia creativa e viceversa per trasmetterne un senso accettabile di autenticità. Se appare fin troppo facile fare convivere il personaggio Chinaski nella sua narrativa ora per immagini facendone il fulcro dell’eccesso, dello sballo, dell’esagerazione fine a se stessa, diventa maledettamente ostico il viaggio inverso. Come può una materia così bassa e sporca diventare cibo per la mente, immagine purificata o gesto dolente e consapevole del suo disincantato artefice? Senza ironia, senza un reale cinismo critico, la storia gira a vuoto come quando l’apribottiglia fa slittare il tappo senza farlo uscire, ogni micro evento della vita del protagonista dovrebbe diventare un pretesto da trasformare in una lettura più alta, più sentita, allora l’eccesso diventa gesto significativo, la parola grido d’allarme e l’immagine specchio deforme. L’immedesimazione in Chinaski di M.Rourke sarebbe anche appropriata, come lo è il contrasto che eleva di poco il racconto con l’alcolizzata e più sofisticata Wanda, interpretata da una Faye Dunaway ancora troppo bella, ma da cui non scaturisce quel profilo più alto, più autentico, anzi si deborda fra le immagini più stereotipate della cultura giovanile che fu, e si cade nell’ involontarietà comica che diventa imbarazzato baratro in cui trascinare i nostalgici del tempo, quelli che hanno confuso il dono dell’arte con il dovere dello sballo come fosse l’artificio indispensabile alla creazione. Di tutto ciò ne risente la prosa stessa di Bukowski ridotta a semplice espediente spettacolare, mentre il film che denuncia il trascorrere del tempo e oggi risulterebbe del tutto inattuale, resta confinato nella sua inadeguatezza cosa non da poco per il contenuto artistico che vorrebbe evidenziare. Più che altro Barfly rappresenterà un crocevia per come vengono raffigurati i due protagonisti. Rourke fedele al personaggio sconterà a sue spese la deriva fisica e artistica fino alla resurrezione in The wrestler (2001), mentre per la divina Dunaway non ci saranno altre strade che un lungo viale del tramonto, con o senza bottiglia in mano.

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