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Antonio Gramsci - I giorni del carcere

Regia di Lino Del Fra vedi scheda film

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La recensione su Antonio Gramsci - I giorni del carcere

di lamettrie
9 stelle

Splendida biografia di Gramsci, sul lato politico e psicologico. Mostra tutti i temi della lotta comunista, all’avanguardia dell’antifascismo e soccombente in modo tragico, durante gli anni peggiori d’Italia, quelli del ventennio.

Lo fa con gli occhi del ’77, dopo una lunga riflessione, quando Gramsci era ancora figura di riferimento per una sinistra che, con i suoi meriti e si suoi demeriti, cercava, in quegli anni più che mai, di prendere il potere. Allora era indicazione per la prassi, oggi è documento storico straordinario, quello confezionato da Dal Fra, che 15 anni prima era stata la mente dello splendido documentario “All’armi siam fascisti”, probabilmente il migliore su (e dunque contro) il regime di Mussolini.

Cucciolla staglia alla perfezione i tratti del rivoluzionario sardo: un brutto carattere, ma di un uomo geniale. Commuovente è la sua vicenda sentimentale, tormentata come lui lo era (e del resto osteggiata proprio per la coerenza del filosofo con i suoi principi).

Notevole il continuo flashback rispetto al biennio rosso, all’illusione della presa del potere socialista, che invece sfocia nella reclusione: una prigionia, vissuta con orgoglio, con il rifiuto di chiedere la grazia al dittatore. La stupenda fotografia sottolinea l’isolamento del carcere, che porta il grande intellettuale a una sempre maggiore sofferenza mentale, pur non riuscendo mai a toglierli lucidità (anche se quegli 11 anni di stenti gli toglieranno la vita, a 46 anni).

C’è tutta la storia del fascismo. Tanti i dettagli memorabili; dal medico che non lo vuol curare: «da medico lo devo fare, ma da fascista…», alla censura, opprimente, implacabile, così vergognosa nei confronti della verità, al dosaggio sapiente e limitato della libertà: «Meglio far impazzire in carcere, ma lasciargli un po’ di libertà. Così quel poco di libertà non la usano per dire quel che pensano, e si neutralizzano da  soli».

La violenza di stato, un classico del ventennio, è perfettamente analizzata: «Un bel complotto di sovversivi serve per giustificare la violenza di stato… non aspettano altro… e se non lo trovano, se lo fabbricano da soli». Era lo stato che più di tutti da noi ha applicato un principio che ha fatto sempre disastri: due pesi e due misure. Le violenze fasciste impunite, quelle dei loro avversari invece venivano sempre represse, e sempre più del dovuto; a volte represse anche quando non c’erano.

Realistica è la disamina del tema culturale, così caro a Gramsci, che non esita  dire che «senza intellettuali adeguati non c’è speranza di guida, riscossa e liberazione per il popolo»: «Ci vogliono nuovi intellettuali, che non hanno paura di sporcarsi le mani con la lotta. Gli operai devono essere intellettuali. Il partito dev’essere intellettuale». Gli intellettuali tradizionali erano (sono?) solo i leccapiedi, che per far carriera non avevano alternativa che asservirsi al potere economico (o allo stato fascista, che aveva la sua unica vera ragione d’esistere nella protezione che dava ai grandi imprenditori, e da cui riceveva il consenso, dato che questi pochissimi ricchissimi avevano in mano tutte le armi della possibile propaganda). Una tecnica drammatica, che fa sì che gli sfruttati diano libero consenso a chi li sfrutta, che ha i mezzi enormi per convincerli, e che non ha bisogno della coercizione. «Finiscono per sostenere il dominio dei loro stessi nemici». «Bisogna abbattere questa educazione tradizionale, che fa credere in valori trasmessi da secoli, ma falsi e non analizzati».

C’è la professione della rivoluzione violenta, che può facilmente non essere condivisa; ma portata avanti con una coerenza straordinaria, che ha tenuto sempre lontano da accomodanti soluzioni di avanzamento della carriera, e di adeguamento opportunistico al potere o al vertice o alla maggioranza.

Onesta intellettualmente è la critica, del resto assai viva all’interno della sinistra, contro i propri stessi limiti. La dittatura di Stalin viene denunciata per quello che è, una contraddizione inaccettabile e gravissima, attraverso anche le parole sempre franche degli anarchici. E poi c’è la critica alla Nep, che dopo pochissimi anni dalla rivoluzione d’ottobre già impediva una piena uguaglianza. Ma c’è anche la denuncia della socialdemocrazia, che poi ha vinto, e si è evoluta storicamente, molto spesso andando contro gli ideali professati: tutto quel riformismo moderato non fa altro che il gioco dei capitalisti, cui i socialisti finiscono per asservirsi, anche in modo interessato ed ipocrita, con compromessi giustificati in ogni modo e senza un limite.

Il tutto in due ore non mosse, che però non annoiano mai: proprio per la profondità e la concretezza della filosofia che le percorre. La filosofia del pensatore più significativo del ‘900 in Italia (al di là delle divisioni “ideologiche”), che però è straordinariamente ignorato.

 

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