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Arance e martello

Regia di Diego Bianchi vedi scheda film

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La recensione su Arance e martello

di LorCio
5 stelle

L’approccio nei confronti di questo Arance e martello, esordio sul grande schermo di Diego Bianchi (alias Zoro, colui che meglio di tutti ha raccontato le pippe mentali della base de sinistra dal momento del passaggio dai Ds alla grande famiglia allargata del Pd), pone quesiti che manco Zoro di fronte alla telecamera che fa l’analisi della sconfitta (un must per noi altri, pure quando vinciamo). Insomma, come ci dobbiamo comportare? Che oggetto abbiamo tra le mani?

 

Abbiamo un film che poi forse film non è. Senza burocratizzare tanto la cosa, come d’altronde piace a noi altri, senza proporre primari o comitati centrali (a seconda dei gusti dell’apparato), arriviamo al sodo (oddio, veramente?): Arance e martello ci piace assai per ciò che racconta e per quel che vorrebbe trasmettere, ma se parliamo di film in quanto film, probabilmente non ci siamo.

 

Tecnicamente parlando, il film è un collage: evocazioni dichiaratissime e quasi ridondanti di Fa’ la cosa giusta (cineamatoralità pedante), riprese in digitale che lasciano pochissimo spazio alla fantasia come nei programmi in hd di Sky (perfezionismo tecnologico), inserti in puro stile Zoro con la videocamera in posa selfie (stile personale). Un collage a tratti confusionario, tutto sommato calcolato nel passare da una tecnica all’altra, giustificato fin troppo dall’intenzione del protagonista di realizzare un documentario sulla chiusura del mercato.

 

Da un punto di vista narrativo, il film soffre di questo collage: quando si fa pura narrazione, con Zoro in secondo piano e il mercato e i militanti sulla scena, si respira qualche atmosfera da sana commedia all’italiana con punte di farsa regionalistica. Il ruolo dell’autore sarebbe stato maggiormente opportuno se asciugato della sua presenza: in fondo i segmenti meno efficaci risultano proprio le riprese in soggettiva perché fondate su un equivoco di fondo.

 

L’equivoco è semplice: la fortuna di Zoro è stata quella di aver puntato sulla pancia della base (ricordo splendidi reportage nelle sezioni del Pd o al Corviale) lasciando che la gente parlasse liberamente di fronte alla videocamera. Qui il gioco non funziona perché trattasi di attori, per quanto alcuni bravissimi. La costante sensazione di falsità scenica non gioca né a favore della messinscena né del personaggio Bianchi.

 

Per questo la tanto decantata confessione dell’autore (in sintesi: non so fare niente, ma lo so) pare vagamente fuori luogo ed autocompiaciuta, se non in funzione dell’inadeguatezza di non riuscire a raccontare una comunità perennemente critica ed insoddisfatta nei confronti di un mondo che ovviamente niente può capire.

 

In ogni caso, al di là degli evidenti problemi di natura squisitamente tecnica, c’è del buono in questo film. Nell’ordine: il puntuale disegno di certi tipi umani molto romanocentrici (certo, i commercianti ma soprattutto i militanti, in primis la segretaria Antonella Attili e il mitologico parolacciaro Stefano Altieri che sogna la rivoluzione contro i fascisti); l’eterna indolenza di un’umanità più felicemente scazzata che tristemente annoiata (i tre vecchietti al bar, i giovani fasci); la vacuità delle discussioni di partito, sospese tra radicalismo chic alla moda e nostalgie comuniste d’altri tempi; la rappresentazione della Roma postveltroniana guidata da Giorgio Tirabassi simil Alemanno (con croce celtica sotto la camicia).

 

Il film si rivolge ad un pubblico già avvezzo alle tematiche e all’universo di Zoro (in sintesi: Roma, il partito, la sezione, il passato), legato all’idea di una sinistra che non ci può essere più se non nei ricordi con cui si vorrebbe costruire il futuro (sempre rivolta al passato: “pare un cimitero” dice Altieri guardandosi attorno tra le foto di Togliatti e Bersani). Poi sicuramente ha una decina di battute francamente esilaranti, ma al contempo non funziona come apologo socio-politico.

 

Le strade erano due: scegliere la via televisiva (lo stile Gazebo, insomma) e creare una specie di mockumentary rielaborando in “fiction attendibile” una vicenda reale; o provare la strada del cinema puro, tralasciando le ossessioni cinefile, la forma web-televisiva e un pur temperato egocentrismo. Certo, il film ci fa ridere, riflettere e tutto il resto perché, diciamo così, ci riguarda. Però l’operazione, così, non funziona, purtroppo.

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