Regia di Teo Takahashi vedi scheda film
Lunga vita al cinema indipendente. A quello che cerca i suoi personaggi per le strade e nelle case, nei luoghi più affollati e quelli più segreti, per farne gli interpreti delle loro storie vere. La narrazione comincia, banalmente, quando qualcuno si mette a parlare. Un pensiero può affacciarsi spontaneo alla mente, e diventare una confessione, una riflessione ad alta voce. A prima vista potrebbe sembrare la risposta a un’intervista, mentre magari, invece, è soltanto frutto della voglia di comunicare un’esperienza. In questo film gli ex tossicodipendenti e gli operatori sociali del centro “Villa Maraini” di Roma sono un po’ attori, un po’ testimoni. Recitano o si esprimono liberamente, alternando un tono drammaticamente impostato con la mimica e la gestualità naturali, ma senza mai tradire il principio della sincerità. La messa in scena non è una finzione, nata da un racconto inventato; è semplicemente la ricostruzione di un ricordo personale, che si mette l’abito buono e cerca di usare un linguaggio pulito per poter esser ascoltato da tutti, e poter aspirare a rappresentare tante situazioni diverse nella forma, ma analoghe nella sostanza: regia e sceneggiatura intervengono, sul vissuto, quel poco che basta a conferire, a quei singoli casi umani, la giusta dose di universalità. I drogati compaiono con i loro volti ed i loro veri nomi, si mettono personalmente in gioco per diventare gli esempi di un intero universo di dolore, di emarginazione, di quotidiana lotta contro una vita da cui alcuni si sentono incompresi e respinti. Ogni giorno, è difficile procurarsi la roba e farsi, ma lo è altrettanto accettare la propria condizione, o capire come poterne uscire. Arianna e Patrick non hanno l’aspetto dei tossici, ma solo perché, nella vita reale, sono riusciti a riabilitarsi. In questo film ci mostrano quanto questo successo sia costato caro: il cammino è stato lungo, costantemente minacciato dalla tentazione di mollare tutto, dalla convinzione che tutto sia inutile. La droga è un’abitudine che può essere scambiata per una libera scelta o per un modo di essere. Il problema è riuscire a concepire se stessi in maniera disgiunta da quella sostanza, da quel giro, da quella clandestinità in cui i suoi adepti sono confinati. Il buco è un rito che si consuma di nascosto, nello squallore di un bagno pubblico o di un terreno incolto. A quel momento di intimità autoreferenziale, vissuto in uno spazio riservato, bisogna saper sostituire la vita della comunità, in cui tutto è condiviso nonché regolato da norme chiare e rigorose. L’esposizione alla luce non basta a sconfiggere l’irresistibile attrazione per il buio. Nell’oscurità si casca all’improvviso, senza sapere come, e quel tonfo sancisce un legame profondo, indecifrabile e dunque impossibile da contrastare con la sola forza della ragione. In quella guerra, persino l’istinto di sopravvivenza spesso finisce sconfitto. Il divieto di morire, per quanto perentorio, può risultare inefficace. Cercare di renderlo operativo significa combattere, soffrire, e perdere. Ciò vale tanto per i “malati” come per i loro “medici”. Insieme ci si impegna ed insieme si fallisce. La strada comune è una ricerca paziente e disperata. Una corsa sfibrante in cui ripetutamente si cade e ci si rialza, e che non finisce mai. Una parentesi eternamente aperta sull’incertezza. Questo film ne traccia i contorni nervosi ed ambigui, che seguono le traiettorie contorte delle seduzioni più sinistre e misteriose. Perché l’eroina è un problema sociale che non smette di incombere, sul mondo di oggi, con il carattere macabro e sfuggente di un’antica maledizione.
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