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The Canyons

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su The Canyons

di EightAndHalf
7 stelle

Scena 1, esterno. Un cinema diroccato, seguito da un altro e da un altro ancora, si affaccia su una strada desolata e post-apocalittica del mondo hollywoodiano del terzo millennio. 'Il mondo è uno sputo', non soltanto perché è tutto piccolo piccolo, assottigliato e privato delle sue immense diversità dalla globalizzazione tecnocratica dell'avvento di iPhone e cybernetici dispositivi elettronici sempre più invadenti, ma anche perché è appiccicoso e disgustoso, sudato per un'inarrestabile corsa al futuro ma umanamente immobile. All'apparenza, fermandosi alla regia di Schrader (che è un capolavoro di 'attonito cinematografico'), il film ricorda gli andamenti robotici di Cosmopolis, ma la realtà è un'altra, volutamente meno profonda degli squarci esistenziali di Cronenberg, che trascendevano ampiamente la realtà profetizzandone lo scorrere; profondissima, comunque, per la straordinaria coerenza di tutta l'operazione. The Canyons infatti intrattiene lo spettatore anche più sprovvisto con un ritmo sincopato e sconvolto, che si tiene a distanza, non per un odio calcolato nei confronti dei suoi personaggi (frequenti i primi piani), ma per la consapevolezza della loro immobilità (molti i campi lunghi), e ancora, non perché essi siano del tutto disumanizzati, ma perché si abbandonano a un nuovo ordine di vita, quello della geometria matematica della loro casa, quello del sesso consumato spesso e talvolta ripreso per tedio di vita, quello di una morbosità che ha perso la sua raison d'etre, e che anzi è diventato ratio essendi assoluta dell'esistenza, e si dilunga inutilmente nel procedere prevedibile e insensato della bellezza estetica, della pulizia visiva, del caustico e asettico mondo dell'immagine amatoriale. Nessuno vive più nella privacy, la vita è affacciata sul mondo (volontariamente), e la si guarda attraverso lo schermo di un cellulare, di un computer, di una televisione che può essere anche chat, oppure attraverso i vetri che circondano l'intera casa di Tara e Christian, che sorge su un promontorio ed è suscettibile dei saccheggiamenti che i ragazzi appiattiti di Bling Ring operavano lì nei dintorni. Tutto è ripreso e filmato, tutto è risaputo e persegue le ossessioni voyeuristiche dell'uomo, in particolare del sesso maschile, che in nome di una volontà di sopraffazione e di potere (cose da uomini) vuole farsi guardare mentre possiede il sesso femminile di fronte ad altri uomini che decisamente quella donna non la possono avere, ma che sono abbastanza soddisfatti anche solo di quello che guardano. L'uomo è attore, si sente regista facendo anche l'attore, ma non si rende conto di essere solo attore: il monologo esplicativo di James Deen di fronte a un altro regista, Gus Van Sant, che con Schrader lo riprende nell'attimo in cui il suo essere-apparire si indebolisce.
L'immagine ridondante riempie le nostre vite, i segreti e i sotterfugi sono modalità straconosciute nel mondo delle relazioni umane, che si riducono a scambi di messaggi, hacker e spie che setacciano il robotico mondo californiano. Dov'è finita, in questo piccolo mondo prossimo all'implosione (il versamento di sangue finale), l'immagine pura che era utile per la nostra vita? Quando ha cominciato ad essere sostituita dall'ossessione e dalla mania? Mai lo spettatore cinematografico è stato poco voyeur e poco morboso, nell'osservare la vita privata di personaggi che nel 2013 comunque si offrono alla loro esibizione? Mentre si insinua un dubbio distruttivo, se il cinema e l'immagine siano forse più coerenti con il mondo di oggi, fatto di colori bianchi, di nudi erotici e patinati, di paesaggi ricostruiti e di macchine metallizzate, si seppellisce il cinema vecchio, che nella sala cinematografica forse riusciva a riproporci il sogno di una vita riprodotta, cosa che il pittore o lo scultore del passato comunque facevano, senza la necessità dell'energia cinetica. Il movimento di Schrader, così, è sinuoso e accogliente, benché destabilizzante e respingente, si afferma come elegante e assai autoriale per una storia fastidiosa e risaputa che però è anche sintomo di un punto di rottura. E' tutto voluto, e la regia salva il film, e lo rende, come già detto, spaventosamente coerente, perché in quella trama in cui lentamente la tensione si innalza (quasi a mo' di stereotipo) e i personaggi lentamente si smascherano (anche se tutti sono diventati attori straordinariamente bravi nella vita quotidiana che è la vita 'finta' di un film su una verità 'finta'), grazie a dispositivi elettronici che tradiscono la necessità umana del 'segreto', si pende sul bordo di un canyon che è il vuoto che sta attorno e in mezzo ai personaggi e ci si cade inesorabilmente, quando l'omicidio, la bugia e l'ossessione della gelosia prendono il sopravvento e diventano 'scorrere normale dei giorni'. E forse quell'amore sincero, che già sembrava possibile soltanto in un feuilleton, si è trasformato, nell'ultima segmentata sequenza, in torbida mania, forse sincera, ma sicuramente (e fisiologicamente) malata. Il film è un compromesso con il fastidio della vita di oggi, che è uno schermo e in cui un regista di vecchia scuola si è riuscito perfettamente a immergere, spietato ma non esplicitamente tale, nella ricerca disperata dell'affezione umana in una pellicola che forse va accettata come assioma, nella banalità da soap-opera della sua trama, perché ha capito che della realtà non c'è più niente da capire.

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