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Dimmi che destino avrò

Regia di Peter Marcias vedi scheda film

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La recensione su Dimmi che destino avrò

di OGM
8 stelle

Dalla parte dei rom. Peter Marcias porta il suo film dentro un campo nomadi, per convincerci che, in quel luogo, le uniche cose che non vanno sono la povertà dei suoi abitanti e le conseguenze dei nostri pregiudizi. La marginalità dei cosiddetti zingari è la condizione di chi vive in bilico sul confine tra due mondi, la terra d’origine e la terra d’immigrazione, conservando le tradizioni culturali della prima, ma partecipando ai problemi sociali della seconda, a cominciare dalla solitudine. Alina la sta sperimentando sulla sua pelle. È nata in Italia, in una baracca, in mezzo ai topi, ma poi si è staccata dalla sua numerosa famiglia, per trasferirsi a Parigi, dove lavora e vive da single. Dall’altra parte c’è il commissario Giampaolo Esposito, vedovo con un figlio adolescente. In mezzo a loro, un caso di rapimento ai danni di una minorenne. Il presunto colpevole è Zagor, uno dei fratelli di Alina, che, in realtà, è scappato con la fidanzatina per mettere i futuri suoceri davanti al fatto compiuto, e sottrarre così i suoi genitori all’obbligo di versare loro un’ingente somma di denaro per l’”acquisto” della sposa, come previsto dalle usanze. Quella fuitina che, per la nostra legge, costituisce un reato, si colloca proprio su quel delicato crinale da cui nascono tutti i malintesi tra i popoli di diversa origine. Le differenze esistono, eccome, e si fanno sentire. La burocrazia è del tutto inadeguata ad affrontarle, ma neppure l’impegno umano è sufficiente a superarle. Alla comprensione e alla comunanza c’è, comunque, un limite. Giampaolo e Alina si guardano attraverso di esso, mantenendo una distanza di sicurezza che nemmeno il sentimento riesce a colmare. Nel realismo con cui essi approcciano la questione si scorge l’amara prudenza di chi, per intelligenza od esperienza, non crede nell’onnipotenza dell’amore. La barriera di cui avvertono la presenza è uno schermo a due facce: sono le superfici delle loro opposte sensibilità, che per un attimo si illudono di essere estremamente vicine, mentre, in realtà, si toccano voltandosi le spalle. Le loro storie sono andate troppo avanti, ognuna sulla propria strada, per poter sperare di incontrarsi e continuare a camminare insieme. Il ponte che unisce l’uno all’altro è un legame fragile come una mano tesa. Giampaolo può diventare amico dei ragazzini del campo, insegnando loro a giocare a pallone, ma non sarà mai uno di loro. La solidarietà è una generosità che si ferma, per pudore, sulla soglia oltre la quale la controparte dovrebbe spiegare il proprio modo di essere, aprendo una finestra sulla propria intimità. Non tutti sono disposti a compiere questo passo. I piccoli calciatori, quando vengono intervistati, non dicono tutto di sé. Non rivelano i nomi delle bambine di cui sono innamorati. Anche Alina, inizialmente, sceglie di tacere sul fratello e il suo segreto. E fino alla fine, non ci sarà dato sapere chi quella giovane donna veramente sia, e cosa realmente provi nei confronti delle persone, amiche od estranee, che la circondano. Il poliziotto fa il suo mestiere: indaga, pone domande, raccoglie dati ed informazioni registrabili sui documenti. In questo modo si possono scrivere le cronache, redigere i rapporti e compilare le statistiche. Si possono riempire gli archivi di nomi, di foto e di impronte digitali, come quelle che una disposizione del ministro Maroni richiedeva di prendere anche ai bambini. Ma non è possibile capire cosa ci sia dietro alle singole identità elencate nei censimenti anagrafici. Dimmi che destino avrò ci racconta la volontà di sapere e conoscere l’altro, insieme alla frustrazione di non poter andare fino in fondo. L’incontro rimane a metà. E ci insegna ad accettare e rispettare il prossimo senza pretendere di assimilarlo a sé.

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