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Bróder

Regia di Jeferson De vedi scheda film

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La recensione su Bróder

di OGM
8 stelle

L’urlo della favela. A volte è l’espressione di una gioia giovane e selvaggia, altre volte è un’esplosione di rabbia. La vita, in mezzo a quel dedalo di viuzze strette tra case prive di intimità, è sempre un’avventura gridata, che ricalca i ruvidi ritmi della musica rap e sottolinea i colpi dati ad un pallone. Marco Aurelio, detto Macu, e Jaiminho sono cresciuti insieme, in quel sudicio sobborgo di São Paulo. Il primo è rimasto lì, con la sua famiglia, a sopravvivere come poteva, adeguandosi alle crudeli regole del posto. Il secondo, invece, è emigrato in Spagna, dove è diventato una stella del calcio. Quando Macu compie ventitré anni, i due ragazzi si ritrovano, nel loro quartiere, insieme al loro vecchio amico Sergio. Jaiminho è rientrato in patria, perché è in attesa di essere convocato nella nazionale brasiliana. I compagni di un tempo appartengono ora a due mondi diversi: quello di chi ha i soldi, e quello di coloro che non li hanno e sono disposti a tutto per poterli avere. Da un lato il successo e la ricchezza, dall’altro la povertà e il crimine. Macu si è indebitato e frequenta cattive compagnie. Jaiminho, dal canto suo, ha commesso il peccato di dimenticarsi della donna che, prima di partire, aveva amato, e che ora aspetta un figlio. Per entrambi ci sono conti in sospeso, che non sono facili da accettare, e che non si possono pareggiare  senza ripensare agli errori commessi e rimettere in discussione le proprie scelte. A dover veramente pagare, non con il denaro, bensì con l’anima e il corpo, sono però sempre e soltanto i più deboli, coloro i quali non hanno avuto l’opportunità di sradicarsi dal male che infesta quei luoghi pieni di rancore e privi di speranza.  Sono gli individui per i quali l’esistenza non potrà mai essere diversa, che non conosceranno mai la fortuna, e ai quali restano, come unici beni, il senso dell’unione e la dignità personale. Su questo tessuto grezzo e robusto si innestano la superficialità, l’incostanza, la propensione al tradimento, che sono i risvolti di un’ebbrezza malata, in cui ognuno cerca istintivamente rifugio dalla desolante sensazione di inutilità.   Il disagio rumoreggia, sparando al massimo l’energia che non riesce a trasformare in progetti concreti. La sfida segue le disordinate linee di fuga del caos, ed è rivolta contro l’incombenza del nulla. Ci si mescola agli altri così come capita, semplicemente per sentirsi parte di un tutto, in un gioco in cui stare insieme significa far numero per scongiurare il pericolo dell’invisibilità. Chi fa chiasso nel gruppo non può essere considerato nessuno, e così si diventa  fratelli di tutti, di chi si ama davvero e di chi, invece, è solo un momentaneo complice di comodo. Questo modus vivendi fa della strada il teatro di una specie di danza, in cui, prima o poi, per un motivo o per l’altro, si finisce per dare la mano a  chiunque passi di lì: una commistione che dà il capogiro ed è, in effetti, una vertigine in cui si resta intrappolati. La regia di Jeferson De segue con un realismo emotivamente concitato, eppure scrupolosamente analitico, le crepitanti evoluzioni di questo amaro volteggio. Parteciparvi è come stare aggrappati ad una giostra impazzita, che, col brivido della forza centrifuga, cancella la ragione ed esalta un cieco furore: l’abbandono ad una pulsione vitale che si direbbe primitiva, disgiunta da ogni valore morale, eppure è totalmente immersa nella tragicità dei dilemmi che trapassano il cuore.

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