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Come pietra paziente

Regia di Atiq Rahimi vedi scheda film

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La recensione su Come pietra paziente

di laulilla
8 stelle

Secondo la leggenda afghana, la pietra paziente (Syngué Sabour), è quella che viene individuata come adatta a ricevere le confidenze di chi vuole parlare rivelando i propri segreti: il carico delle sofferenze di cui ci si vuole liberare si fa, col tempo, così pesante per quella pietra da determinarne infine lo scoppio in mille frammenti.

 

 La protagonista senza nome di questo film (la  bellissima attrice iraniana Golshifteh Farahani) ha trovato nel marito, a sua volta senza nome, in coma da molti giorni per una pallottola nel collo, la sua pietra paziente: a lui, assente e silenzioso, infatti, la donna vuole affidare le proprie confessioni.

E’ sua moglie da dieci anni, sono nate due bambine, ma lei non ha mai potuto parlargli di sé, come avviene in tutti quei paesi in cui i matrimoni mirano unicamente a perpetuare il corredo genetico del padre.

Ci troviamo in Afghanistan, in un quartiere di Kabul, sconquassato dai lanci incrociati di missili, che distruggono cose e ricordi, case e uomini. Le donne, ultima ruota del carro in quella sciagurata realtà, sono, a dire il vero, le persone sulle cui spalle ricade totalmente il peso del conflitto: non possono lavorare e sono costrette, tuttavia, a portare avanti la casa e la famiglia: i bambini hanno fame e sete; i malati hanno bisogno di cure, ma pochi sono disposti ad aiutarli, per solidarietà o per compassione.

La donna trova solo nella zia, tenutaria di un bordello, quel necessario soccorso che tutti le negano: presso di lei le sue bambine potranno finalmente mangiare e dormire in un luogo sicuro; mentre il suo posto continua a essere accanto all’uomo che l’ha sposata, la sua pietra paziente.

In un crescendo di confessioni, sempre più drammatiche, la donna metterà a nudo gli angoli più nascosti del suo cuore, rivelando i segreti sempre taciuti: le paure infantili, come quella di essere venduta - come sua sorella - da un padre bisognoso di soldi per continuare nelle sue scommesse insulse; il fidanzamento che era avvenuto senza di lui, perfetto sconosciuto che non si era neppure intravisto; il matrimonio celebrato in una cerimonia senza gioia, ancora una volta in assenza di lui, trattenuto dai ben più importanti impegni di guerra; la paura di essere ripudiata perché ritenuta sterile.

 

L’irruzione imprevista di un gruppo di soldati, armati fino al collo, nella sua abitazione avrebbe potuto essere per lei il preludio di una svolta drammatica, di un’estrema umiliazione, ma era diventata l’occasione attesa della sua vita: si farà strada in lei, a poco a poco, un nuovo sentire, un cambiamento del cuore,  un bisogno di sincerità profonda da cui si originerà il bellissimo finale del film, molto ben costruito, inatteso e terribile.

 

Nel film è presente la denuncia di una condizione femminile intollerabile, insieme alla rivendicazione di diritti umani che non debbono essere ancora a lungo così atrocemente calpestati.

Tuttavia i due personaggi, quello di lei, accuratamente e finemente disegnato attraverso un’attenta analisi introspettiva, così come quello di lui, eterno assente, eroe guerriero senza qualità e senza meriti, rappresentano sul piano metaforico la condizione stessa dell’intera società afghana, nella quale l’immobilismo comatoso e violento dei maschi è ben rappresentato dalla condizione del malato incapace di risvegliarsi per ascoltare con umana comprensione, finalmente, la donna che, nonostante tutto, continua a farsi carico delle pesanti responsabilità della vita familiare e sociale, cosicché si perpetua la situazione di separatezza dei sessi, rigidamente incatenati nei ruoli tradizionali, che potrebbe durare ancora per molto tempo e di cui la donna del film massimamente esprime le contraddizioni.

 

 

Il regista di questo film è lo scrittore afgano Atiq Rahimi, che vive e lavora a Parigi dove fu accolto anni fa come rifugiato politico e dove scrisse numerosi romanzi, oltre a “Pierre de patience*, che nel 2008 gli fece conquistare il Prix Goncourt.

A indurlo a trasformare in opera cinematografica il romanzo fu Jean Claude Carrière, il grande sceneggiatore di moltissimi famosi film (fra i quali alcuni celeberrimi di Luis Buñuel), la cui scrittura ha certamente contribuito alla riuscita di quest'opera, che presenta molti caratteri della lenta narrazione del cinema iraniano e afghano, insieme a un uso molto francese dell’indagine psicologica, e della rappresentazione stilizzata, quasi teatrale, del conflitto fra  due visioni del mondo.

Il romanzo, è stato tradotto nella nostra lingua col titolo Pietra di pazienza per Einaudi.

 

 

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