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Come pietra paziente

Regia di Atiq Rahimi vedi scheda film

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La recensione su Come pietra paziente

di fefy
8 stelle

"Come Pietra paziente", film di Atiq Rahimi (classe 1962) che nel 1984 fugge dall’Afghanistan, dove è nato e cresciuto, e riesce ad ottenere asilo politico in Francia sottolinea come sia difficile dimenticare la propria terra. Il regista anche scrittore, infatti, in ogni sua opera vi ritorna, costantemente, attraverso la scrittura e la cinematografia: due forme d’arte che gli permettono di descrivere quello che era ed è la sua patria, con la distanza, il disincanto e la critica permesse a chi in quei luoghi ormai non vive più da qualche tempo. Dal suo romanzo “Terra e cenere”, scritto nel 1996 quando i talebani presero il potere a Kabul, trae nel 2004 il suo primo lungometraggio, “Terre et cendres” (presentato al festival di Cannes), mentre, dal libro del 2008 “Pietra di pazienza” (vincitore del premio Goncourt e pubblicato in Italia per Einaudi) prende forma il suo secondo film, “Come pietra paziente”, che è uscito adesso nelle sale italiane a fine marzo.

Non sapevo che Rahimi fosse ormai un personaggio notissimo del mondo letterario, una voce raffinata, personalissima e però inequivocabilmente afgana, che dà speranza e orgoglio alla sfortunata terra da cui proviene.

Il monologo di una donna, da tempo al capezzale del marito ferito e privo di conoscenza è al cuore di Pietra Paziente.  Quella voce incarna la sofferenza, l'ingiustizia e l'indignata bellezza delle donne afgane. Dicono che il libro sia molto toccante, e il regista scrittore racconta che nel 2005 è stato invitato a partecipare a un incontro letterario a Herat, una grande città nell'Afghanistan occidentale. Una città rinomata per un passato culturalmente molto ricco, per i suoi poeti e i suoi intellettuali illuminati. Ma una settimana prima della partenza ha ricevuto una telefonata che gli annunciava l'annullamento dell'incontro: una giovane poetessa afghana, Nadja Anjouman, era stata uccisa dal marito. Nadja era una delle organizzatrici più attive del festival. Addolorato, colmo d’indignazione, scandalizzato da questa vicenda definita un dramma familiare, è andato là per indagare di persona. Una volta arrivato gli sono state raccontate altre storie - ancora più terribili, ancora più raccapriccianti -, sulla sorte di molte donne in quella contrada cosiddetta illuminata. Avrebbe voluto incontrare il marito della poetessa in prigione. Ma si era iniettato della benzina nelle vene. Era stato portato all'ospedale. L'ha visto da lontano. Era in coma. In quel momento il regista racconta che avrebbe voluto essere una donna. Avvicinarsi a lui. Parlargli piano in un orecchio. Dire tutto. Le cose più terribili, le più orribili. Come quelle che lui aveva fatto. Non è stato possibile avvicinarlo. Voleva scrivere una storia, un'altra storia che non fosse il racconto della vita della poetessa. Voleva scrivere una storia scandalosa, la storia di una donna che vuole vendicarsi! Per amore o per odio. Con tutta la sua forza e con ogni sua debolezza! Per farlo aveva bisogno di una situazione estrema. Inconcepibile ma possibile. Una tragedia. È nata così la storia di una donna che a causa dell'amore, del dovere, della famiglia e della religione... è condannata ad assistere e salvare il marito, un guerrigliero, immobilizzato da una pallottola, rimasta nella sua testa. La donna deve pregare per novantanove giorni. E ogni giorno, da mattino a sera, deve recitare uno dei novantanove nomi di Allah seguendo il ritmo del respiro dell'uomo. Ma, dopo due settimane, questa preghiera si trasforma in una specie di confessione. Per la prima volta la donna può parlare senza attirare su di sé il biasimo altrui. Osa e si libera. Parla della sua infanzia, delle sue sofferenze e frustrazioni, della sua solitudine, dei sogni, desideri, timori... Così l'uomo immobile diventa, suo malgrado, "Sang-e sabur" (Pietra di pazienza), la pietra magica che uno tiene davanti a sé per riversare su di essa le proprie infelicità, le sofferenze, i dolori, le miserie... Confidando alla pietra tutto quello che non si osa dire a nessun altro... E la pietra ascolta, assorbe come una spugna ogni parola, ogni segreto finché un bel giorno non esplode... E quel giorno saremo liberati. Parlare permette alla donna di mettersi a nudo e di rivelarsi.

È un momento di rottura.  Una situazione di rottura.  Il tempo è sempre un tempo sospeso. Il narratore è paralizzato come il personaggio del marito.  Guarda.  Descrive.  Non è capace di entrare nell'interiorità dei personaggi. Atiq ha scritto questo libro direttamente in francese. Quasi senza volerlo. Racconta: "All'inizio sono rimasto sorpreso: non usciva da me nessuna parola persiana. Sempre più incuriosito ho continuato a scrivere in francese sperando di capirne il motivo... La ragione più banale è che scrivere in francese è per me un modo di sfuggire all'autocensura. La lingua materna, come vuole il suo nome, è una lingua sacra, difficile da trasgredire, perché è attraverso di essa che si conosce il mondo, i suoi confini, i suoi tabù... Non si può che essere pudichi al suo cospetto. Comunque era molto strano. Mentre prima di tornare in Afghanistan, durante l'esilio in Francia, non riuscivo a scrivere in francese, ora, tornato nel mio paese, scrivevo in francese! Strano. Forse perché non vivo più immerso nella nostalgia, lo stato d'animo tipico degli esiliati”

Il regista vuole esprimere tutto il suo disprezzo per una cultura aberrante in cui la donna è un oggetto, ancora adesso, ancora adesso che non si parla più dell'Afghanistan. Sono pochi i posti in cui questa cultura è sparita.

"Non voglio più tornare in un paese dove la donna è considerata tale, ma continuerò attraverso l'arte a denunciare, a far si che le persone non dimentichino e che si rendano conto che una volta nati lì se sei uomo e non ti adegui devi fuggire altrimenti è come fare da spettatore alla bestialità dell'uomo. E se sei donna e non sottostai alle regole difficilmente non diventi oggetto di bestialità, anche se davvero, sono tante le donne coraggiose, sempre più, in molti posti dell'Afghanistan. Non tutti possono fuggire, non tutti hanno il coraggio. Io per fortuna ce l'ho fatta, ma non per questo abbandonerò le donne del mio paese, donne intelligenti, donne a volte geniali! Devono fare degli uomini che come me devono fare da spettatori e sottomettersi anch'essi a certe regole".

Il regista è fiducioso, cambierà qualcosa negli anni a venire, le donne sono sempre di più e sempre più arrabbiate per fortuna.

Quasi tutte le scene del film (che simula Kabul nei luoghi, in realtà sono comunque luoghi per la maggior parte Afgani, neutri),sono girate in interni, dentro una stanza spoglia, con i muri scrostati e le finestre rotte, dominata dalla presenza di un materasso appoggiato a terra, su cui è disteso il corpo, intubato, di quest'uomo in coma, reduce dai combattimenti (Hamidreza Javdan). Al suo capezzale c’è la moglie (l’attrice iraniana Golshifteh Farahani), madre di due figlie piccole, che continua ad accudire anche se ormai non sa più come nutrire, perché in casa manca tutto, anche l’acqua potabile. La cinepresa insegue la donna senza lasciarla un istante, indugiando molto spesso sul suo viso, mentre lei parla al marito, in un flusso di coscienza che diventa un viaggio interiore.
L’intento dichiarato del regista, in questa sua nuova opera cinematografica, è stato quello di “filmare la parola, come un atto e non come una trasmissione di informazioni”.
Per quasi un’ora e mezza, infatti, la giovane si racconta, scoprendosi e rivelandosi, prendendo coscienza di se stessa, delle sue frustrazioni e dei suoi desideri, liberando prima la sua mente e poi il suo corpo e diventando a poco a poco sempre più forte e più bella. In questo lento ma continuo processo di emancipazione viene guidata dalla zia prostituta (Hassina Burgan), che diviene la sua maestra spirituale.
“In tutti i Paesi che esercitano la repressione sessuale – spiega il regista – c’è un numero enorme di case chiuse. La ragione per cui ho scelto di rendere la zia prostituta è che, innanzitutto, amo quelle donne, il loro coraggio, il loro modo di dominare gli uomini con il loro corpo. Di fronte a loro, gli uomini diventano dei bambini, diventano fragili e manipolabili”.
“E’ una sorta di vendetta. Certo, esiste anche l’aspetto sordido della professione, ma in questo caso io volevo utilizzarla come simbolo di una ribellione femminile possibile. Ma attenzione: nel mio film, la prostituzione non è la soluzione, è una possibilità metaforica. E a volte è anche la sola risorsa per le donne afgane ripudiate dalla loro famiglia e dal marito”. In questo caso, il consorte malato, a causa della sua condizione fisica, è totalmente in balia della moglie: dopo essere stato affettivamente assente, e dopo averla cercata solo per meri fini riproduttivi, adesso è obbligato ad ascoltarla, a farsi “pietra paziente”. Come un palloncino, verrà riempito fino ad esplodere: a quel punto, cercherà di strozzarla. Ma sarà la moglie, per legittima difesa, a ucciderlo, esclamando “Sono un profeta!” nel momento esatto in cui riesce a ribaltare -del tutto- i ruoli di vittima e carnefice. La sua rinascita si completa, dunque, attraverso l’uccisione del marito, simbolo di un regime maschilista, che opprime le donne a tutti i livelli: sessuale, religioso, politico, culturale e sociale. E viene attuata di fronte agli occhi del giovane amante (Massi Mrowat), che la paga per poter fare l’amore ma che – allo stesso tempo – asseconda i suoi bisogni, perché lo desidera e non perché è costretto. Proponendo così una nuova forma di relazione uomo-donna".
Dopo aver letto lunghe interviste di Atiq Rahimi, quest’uomo afgano dai grandissimi occhi azzurri e dotato di una straordinaria intelligenza, è cambiata la mia valutazione su questo film, che se consideravo d'impianto troppo teatrale (nonostante l'ottima fattura, l'ottima fotografia, i colori la tensione emotiva) per il grande schermo, ritengo adesso essere adatto a tutte le arti. Ho voluto rivederlo in streaming e in originale ed è stata una notte bellissima per me. Prego per tutte quelle bambine ancora ignare di non conoscere mai quello che le loro madri (e padri) sono costretti a subire. Quel finale che avevo sottovalutato e quella frase "Io sono il profeta" sono qualcosa di importantissimo e danno una potenza al film ancora più forte.
“Non abbiamo bisogno di una rivoluzione politica, ma culturale. Se anche non dovessi riuscire a risvegliare le menti  assopite, vorrei almeno disturbare il loro sonno”, conclude il regista.
Non perdetelo.

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