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Come pietra paziente

Regia di Atiq Rahimi vedi scheda film

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La recensione su Come pietra paziente

di giancarlo visitilli
8 stelle

“Tu non senti il dolore. Tu sei quello ferito e io quella che deve soffrire”. Queste sono soltanto le premesse di una donna bellissima, che vive ai piedi delle montagne, attorno a Kabul, accudendo un marito, eroe di guerra, in coma. La guerra fratricida lacera la città, i combattenti sono in ogni dove, anche dietro la porta dei due, che si accompagnano a bambini affidati alla fortuna. La donna, costretta all’amore da un giovane soldato, contro ogni aspettativa, si apre, prende consapevolezza del suo corpo, liberando la sua parola, per confidare al marito ricordi e segreti inconfessabili. Col tempo, i pensieri di lei si fanno suono e voce, assumendo ora l’intonazione della preghiera, poi quella delle grida e il silenzio di una verità, mai prima ammessa, neanche a se stessa. L’uomo, privo di conoscenza, al suo fianco diventa la sua pietra paziente, una sorta di ‘bocca della verità’, qui più orecchio, a cui confidare tutti i segreti, le disgrazie, le sofferenze. I desideri, soprattutto, d’amore.

Un film lungo come questo (oltre 100 minuti), di cui la maggior parte di girato consta di una tristissima stanza dai muri scrostati e dai colori che hanno perso anch’essi vitalità, non è impresa facile. A questo, poi, si aggiunga che uno dei due protagonisti, è in coma, dall’inizio alla fine del film, perché colpito da una pallottola che gli si è conficcata nel collo. Ma c’è bisogno dell’arte e del carisma del racconto, dello sguardo e della bellezza delle cose per gestire un film come questo. Doti e qualità che il geniale Atiq Rahimi, scrittore e regista afghano in asilo politico in Francia dal 1984, possiede. Infatti, Rahimi stesso porta sul grande schermo il suo romanzo omonimo.

Trattasi di un film-matrioska, struggente, commovente e finanche surreale, in cui il coraggio, tutto al femminile, sta nel dire, per denunciare a se stessa e agli altri, le sofferenze e le umiliazioni che tante donne sono costrette a sopportare, in quei contesti religiosi e tradizionali così ortodossi, come esistono in tanti, non solo nella società afghana e sotto i talebani. In questo caso, in modo particolare, si trascorre il tempo, scandito dal consequenziale scoppio delle bombe, la vita ha un valore insignificante per molti, da miracolati per altri che riescano a farla franca.

Pietra paziente ricorda l’Almodovariano Parla con Lei, acuendone l’aspetto del dolore e dell’atroce consapevolezza della vita che scorre come fiume su rocce, quasi sempre impermeabili, e giammai, porose come quelle pietre che s’intridono di umidità, acqua, sangue, sudore, insomma, di vita. Una vita che risplende nella bellezza di un’attrice, che sembra di marmo scolpito, Golshifteh Farahani, alle prese con la rabbia e la sottomissione, mai obbediente, in parte sempre in bilico fra coscienza e volontaria inconsapevolezza. Alla ricerca sempre di un qualcosa che possa giustificare (il continuo “Dove sono il mio Corano e il mio rosario?”).

Questo quasi capolavoro di Rahimi è impreziosito dall’espressiva fotografia di Thierry Arbogast (il più importante collaboratore di Luc Besson), capace di abbozzare a veri e propri quadri, come le inquadrature che hanno tutte le caratteristiche della pittura mediorientale. A ciò si aggiungano i minimali, appena sussurrati, suoni, affidati ad un musicista compositore d’eccezione, Max Richter, capace di armonizzare i suoni con i rumori, le vibrazioni prodotte dalle esplosioni, che sembrano scuotere irreversibilmente le vite, più che le cose. Lasciando, però, tutto come fosse prima. Fermo, integro, eppure senza vera vita. L’anima che intanto va, portandosi con sé anche ciò che, solo quando era in vita, non avrebbe potuto. Imperdibile.

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