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Just Like a Woman

Regia di Rachid Bouchareb vedi scheda film

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La recensione su Just Like a Woman

di spopola
6 stelle

Non riesco ad andare oltre la sufficienza per quel che riguarda il giudizio complessivo di quest’ultima fatica di Rachid Bouchared che se non erro, è anche il suo primo film girato in lingua inglese (una co-produzione fra Francia – USA e Gran Bretagna).
Ancora una volta infatti l’attenzione del regista franco-algerino torna a suo modo a concentrarsi sugli Indigènes (che è anche il titolo originale del suo primo e più famoso lungometraggio) che per lui evidentemente (e giustamente) non sono solo i primi, legittimi abitanti degli attuali Stati Uniti d’America. Ampliando infatti leggermente la visuale, possono essere inclusi a pieno titolo nella categoria – sembra voler suggerire Bouchared  – quelli che a tutti gli effetti e per più di una ragione,  sono da considerare adesso come i nuovi indigeni della contemporaneità, primi fra tutti, fra i tanti “emarginati” che ci circondano, gli immigrati vessati in ogni dove e le donne che stentano davvero a trovare la giusta affermazione paritaria dei diritti.
Interessante prospettiva di lettura dunque di un film che prova a dare un riconoscimento oggettivo (e soprattutto di interscambievole reciprocità) a queste due componenti tutt’altro che secondarie dell’attuale società multietnica con le quali – nolenti o volenti – dovremo prima o poi confrontarci  e fare i conti con assoluta equanimità di giudizio per restituire a tutti, indipendentemente appunto dallo status sociale, dal sesso, dalla provenienza o dal colore della pelle, analoga dignità che spesso manca (e la responsabilità primaria è tutta della classe dominate maschilista e reazionaria che per convenienza e paura rimane arroccata sui propri privilegi).
In questo senso, il regista è davvero coraggioso nel provare ad evidenziare la possibile forza anche dirompente, di un legame che potrebbe prima o poi unire nella ribellione le minoranze degli “ultimi”, sintonizzandosi  - per rendercela palese - sul tema prioritario dell’emancipazione femminile ancora ben lontana dall’essere raggiunta anche dalle nostre parti nel rapporto sempre controverso fra uomo e donna e fortemente accentuato in peggio, dalle arcaiche leggi delle cosiddette civiltà terzomondiste che umiliano spesso il ruolo soprattutto pubblico del “femminile”.
Mi sembra però che per quel che riguarda proprio la pellicola in esame, al di là delle interessanti premesse di partenza,  non ci sia stata poi la lucidità necessaria per mettere a fuoco davvero il problema per colpa di una sceneggiatura (opera dello stesso Bouchared e di Marion Doussot) che alterna momenti di grande suggestione ad altri in cui invece (e purtroppo) sembra volersi accontentare di essere poco più che il veicolo per una  strumentale dimostrazione della tesi privilegiata dal racconto, e che per questo utilizza qualche stereotipo buonista di troppo, finendo così per rendere meno efficace il messaggio.
Non ultimo elemento di “disturbo” (e che nemmeno questo torna a favore di Bouchared) è poi l’inevitabile confronto con il ben più incisivo viaggio di Thelma e Louise nel film di Ridley Scott col quale ha molti punti in comune a partire dalla radicalità di una scelta tutta al femminile di allontanarsi drasticamente dalla propria sfortunata vita familiare con una fuga a due per perdersi e provare a “ritrovarsi” (in questo caso, rigenerate dalla danza), per le strade tortuose ed infinite dell’America rurale.
Due donne insomma che ancora una volta tentano di reagire al loro destino di subordinazione assoluta imposto dalla società in cui vivono, “andando altrove”, alla scoperta di nuove concezioni di vita: Marilyn e Mona, nella fattispecie, totalmente diverse per stile di vita, cultura e appartenenza etnica, assurte qui a simbolo di quella società multiraziale a cui accennavo prima, che ci porta a vivere accanto a differenti formazioni intellettuali che includono anche le tradizioni e un diverso modo di esprimere il sentimento, quasi senza accorgerci della loro esistenza, o peggio ancora, con il disaggio della diffidenza, che ci impedisce di (ri)conoscersi  (o almeno di provare a farlo) come persone dagli analoghi bisogni.
 
Come nel film di Scott, il presupposto catartico di partenza, prende il via proprio opzionando fra i tanti, il tema della “fuga” a due (l’unione fa la forza?), qui però a mio avviso “scelta” molto meno consapevole, dettata soprattutto da necessità contingenti ed oggettive, e quindi motivata in primo luogo dalla disperazione. La novità risiede invece proprio nel tentativo di prendere a pretesto quasi paradigmatico l’imprevista “comunione” (che diventa “corrispondenza”) di presenze femminili (Cecilia Bruno le ha definite disuguali e complementari) che appartengono a due culture praticamente all’antitesi che si incrociano casualmente a un concorso di danza del ventre: da una parte Marilyn appunto (ottimo il disegno del personaggio che ci viene offerto da un’intensa e “dimessa” Sienna Miller, profondamente coinvolta nell’impresa), una trentenne americana che da troppo tempo ha dovuto sopire ogni possibile ambizione personale, costretta a lavorare alacremente per portare a casa almeno i soldi necessari a pagare l’affitto, da un marito (piccolo criminale da strapazzo) decisamente odioso, cupo, taccagno, traditore e nullafacente, e come tale privo di ogni “rispetto” nei suoi confronti, che viene all’improvviso licenziata dal suo modesto impiego perdendo così ogni concreta “certezza”, e conseguentemente “bisognosa” di dare una svolta alla sua vita per trovare un’altra più decente soluzione esistenziale; dall’altra invece, Mona (l’altrettanto interessante e sensuale Golshifteh Farahani dalla bruna capigliatura, già straordinaria interprete di About Elly), giovane mussulmana proveniente dal nordafrica, sposata su commissione a un suo connazionale immigrato negli Stati Uniti, dove si è trasferita per vivere accanto al marito ed a una suocera dispotica e crudele che le rimprovera di aver tradito quelle che lei considera le giuste aspettative  che una donna deve dare alla famiglia, che è poi  quella di fare dei figli (un “dovere” che la ragazza non potrà “tecnicamente” adempiere), costretta a sua volta da un tragico evento a un inevitabile e necessario l’allontanamento dalla struttura familiare per sfuggire alle maglie della polizia che la sta tampinando da vicino.
Al di là del disagio familiare di partenza, l’unico altro punto che accomuna le due donne, è proprio la  “speciale” e per più di un verso totalizzante passione per la danza del ventre, che Mona ovviamente pratica con la naturalezza tramandatale dalle tradizioni della sua etnia, e Marilyn cerca invece di apprendere con partecipato ardore, prendendo parte proprio a quel concorso che potrebbe fornire alle vincitrici qualche inusuale sbocco affermativo.
E’ dunque la passione per la danza (il ballo come punto di sfogo dalle frustrazioni, e forse l’unica vera modalità che può consentire a entrambe di esprimere liberamente la propria personalità) che le fa incontrare, il collante che fornisce ad ambedue l’occasione dell’avventura “on the road” suggerita anche dall’illusoria offerta  di qualche provvisorio ingaggio nei locali dello sperduto mondo suburbano, e con il miraggio di una (im)possibile scrittura in una più blasonata compagnia di ballo che potrebbe definitivamente risolvere i loro problemi anche di sopravvivenza economica.
Al di là della formazione e delle diverse provenienze, la loro “liberatoria avventura” sulle strade dell’interland americano, da sempre similitudine metaforica che simboleggia più di ogni altra evidenza, un mutamento, una  trasformazione radicale della propria interiorità  da sviluppare fuori dalle gabbie coscrittive dei rispettivi “dogmi” familiari,  sarà anche qui la giusta mediazione (il “mezzo”) che le porterà  a conoscere finalmente e per davvero se stesse e i propri realistici bisogni prioritari, oltre che le reciproche similitudini (più sostanziali che epidermiche), e a scoprire  il per loro inedito paesaggio di un’America altrettanto differente, sperduta, rurale e ugualmente disastrata, fatta di distese infinite, di praterie, deserti e Canyon e di tantissime pompe di benzina rivisitate nel loro peregrinare dentro a un mondo popolato da altri diseredati (Indigèns appunto) come gli indiani che aiuteranno le donne in un momento davvero molto difficile di quel viaggio da Chicago a Santa Fe intrapreso con gioiosa incoscienza, che trasformerà la storia in un percorso verso la  liberazione, zeppo di incontri aperti al “cambiamento”, tutti importanti per la loro crescita interiore (la famiglia razzista e violenta, l’impresario che se le vorrebbe portare a letto, i nativi segregati nella riserva indiana), e dove la geografia del territorio è altrettanto importante delle figure che la popolano.
 
Tutto ciò che ci si potrebbe aspettare (o semplicemente intuire) dalle premesse drammatiche di un omicidio accidentale, o dal più prevedibile pestaggio di Marilyn da parte della classica famiglia di obesi wasp a cui accennavo sopra, è pero alla fine virato dal regista su un piano più intimista che “sociale”, che tende spesso ad alleggerire il tono e non aiuta la pellicola  a lievitare, come se la violenza serpeggiante contro tutti questi “indigeni” e che “avvolge” e travolge anche le due donne in fuga, confluisse e si stemperasse nella morbida energia della danza, che  diventa alla fine il nodo centrale del racconto e la valvola di sfogo delle tensioni accumulate che sembrano esaurirsi nella accentuazione sensuale delle movenze flessuose dei corpi, ma anche, e per più di una ragione, il suo limite più evidente.
Non è -. badate bene - che il regista  non riesca ad inquadrare nella giusta prospettiva le due protagoniste: loro sono rappresentate infatti con una adeguata corrispondenza di gesti e di parole e molto affetto, ma risultano spesso  come “scontornate”, nel senso che seppure il quadro – lo sfondo - esiste ed è anche adeguatamente definito, a volte si trovano ad agire in assoluto primo piano, disgiunte e quasi avulse dal contesto, a causa anche di una scrittura  molto debole  nel definire e delineare le psicologie dei caratteri di secondo piano, che  sono però tutt’altro che secondari.
La messa in scena è quindi quella di un’idea che non si percepisce come concretamente realizzata fino in fondo per colpa di una struttura operativa che forse avrebbe avuto bisogno di un pugno più energico e deciso, ed è così allora che alla fine sarà importante soprattutto ciò che alle due donne rimane del loro viaggio iniziatico, che è poi la sensazione (non la “consapevolezza”) di non essere più sole… il che è già qualcosa, ci mancherebbe! ma a mio modesto avviso ancora troppo poco… e così si ritorna di nuovo e ancora  proprio  a Thelma e Louise opera davvero seminale con la quale deve necessariamente fare i conti ogni pellicola che parte dalle stesse premesse, ed è forse proprio da questa considerazione che non può assolutamente essere elusa nonostante il tempo trascorso (il film di Scott è del 1991, è bene ricordarlo), che al termine della visione rimane la sensazione un po’ amara di una possibilità (anche aggiornativi)  mancata e di un appuntamento non onorato fino in fondo che magari avrà anche a che fare con la diversità dei tempi in cui viviamo e i cui i venti di crisi probabilmente non sono i più propizi nemmeno per un una fuga senza ritorno…. ma come ha giustamente osservato Barbara Corsi, Thelma e Louise non avrebbero mai pensato di tornare indietro. A nessun costo. Ed è questo “assolutismo” che manca alla pellicola di Bouchared, il “respiro” catartico di una definitiva e cosciente “liberazione” che corrisponda a una irreversibile “presa di coscienza” dalla quale non si può più prescindere.
All’attivo della pellicola, oltre alla bella prova delle due protagoniste, c’è comunque anche la qualità di un regista capace di filmare gli ambienti con una realismo che porta in primo piano le emozioni, e le esalta  quanto basta per creare empatia grazie a un appropriato e accoro uso della cinepresa fatto di panoramiche, campi medi  e dettagliati primi piani che dolcemente accarezzano i corpi spesso “danzanti” e quasi fluttuanti, di  Marilyn e Mona,  il tutto reso ancor più coinvolgente dalla pastosa fotografia di Christophe Beaucarne.

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