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Il padrino

Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film

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La recensione su Il padrino

di LorCio
10 stelle

C’è da capire subito una cosa: il culto del Padrino (perché va oltre l’essere cult, qui siamo nei territori della celebrazione eucaristica) da cosa dipende? Non credo che ci sia una rappresentazione encomiastica del mondo malavitoso che affascina: Coppola trova la giusta distanza nel raccontare e, sebbene rischi costantemente, non rimane incastrato nel meccanismo Corleone. Ma se Coppola è cosciente di quel che fa e di quel che dice in un’ottica di narrazione sì appassionata ma non passionale, è un certo pubblico a subire da Il Padrino una fascinazione ambigua. È lo stesso pubblico che s’innamora dell’epopea di Tony Montana senza farsi troppe domande su una qualche etica (non sulla moralità, che è ben diverso). Se siete neofiti nella visione del Padrino, non fatevi suggestionare da questa tendenza che pretende di elogiare i Corleone come gli ultimi esponenti di un nobile Romanzo Criminale. È parzialmente vero, ma non è del tutto così. Con questo primo capitolo della trilogia, Coppola ha un solo interesse: immortalare sullo schermo un mondo che c’è ancora (finché ci sarà il mondo ci saranno i criminali) ma che ha perso nel corso del tempo quella sua dimensione quasi morale, fagocitata dal suo stesso mito. I Corleone hanno ancora un’etica della criminalità, ad esempio Don Vito non vuole immischiarsi nel traffico di droga – ma poi deve cedere. L’etica della criminalità sta nella disanima tra pubblico e privato, che si ribalta dalla convenzione comune: il pubblico è la famiglia, la rappresentazione di una sorta di armonia; il privato è il lavoro, gli affari della famiglia. L’etico Don Vito non vuole che il figlio Michael, il medagliato di guerra, si sporchi le mani con gli affari di famiglia: ma, morto Sonny, perso Fredo, deve chinare la testa. Paradossalmente, il meno etico risulta essere Michael, rivelandosi così il più tradizionalista, o almeno il più rigido nel raccogliere la pesante eredità.

 

Apoteosi del valore che i Corleone, specie Don Vito, ha della famiglia, è il matrimonio della figlia: concentrato di stereotipi italiani (che però nel 1945 erano abbastanza plausibili), dai canti popolari al ballo del padre con la sposa, fasto della ricchezza e modestia delle persone, nella cornice della sfarzosa villa costruita col sangue e il malaffare; Don Vito riceve nel suo ufficio per fare favori, un po’ come quei politici che basano la propria vittoria elettorale sul clientelismo. Proprio l’atteggiamento che la mafia (cioè i Corleone) dimostra nei confronti della stessa politica è ambiguo: la trattano come una famiglia, i politici sono le punta di diamante delle rispettive famiglie, ci si tratta come si tratta con i Tartaglia o chicchessia. Se Don Vito ha quasi rispetto verso il potere politico, i suoi eredi ragioneranno con la logica della criminalità: politica o malaffare, sempre la stessa solfa è. In fondo, tutto il sistema mafioso messo in scena da Coppola funziona come il sistema politico: c’è una guerra tra clan, in cui ci lasciano le penne alcuni delfini, dove anche Don Vito rischia di finire male; ma poi il troppo sangue sparso dà alla nausea, la vendetta non appagherà mai il dolore e dunque tanto vale stipulare una pace con un meeting o una trattativa. Il passaggio di Michael dalla vita americana e allo sfondo siciliano (splendidamente di maniera, a metà tra l’epica di Puzo e l’arte di Guttuso) è radicale fino ad un certo punto (clamoroso trampolino di lancio per Al Pacino).

 

Tra sparatorie e teste di cavallo mozzate, mani infilzate e omicidi gelidi, Il Padrino è un’opera che porta intrinseca una classicità congenita che si rifà all’Iliade e alle Argonautiche. Perfino le musiche di Nino Rota (ma il tema era già presente nel fellinian-eduardiano Fortunella) e Carmine Coppola sottolineano i connotati di questa sorta di opera lirica. Che ha la sua potenza incarnata nel solenne patriarca Marlon Brando, che si presentò al provino con l’ovatta in bocca e il lucido di scarpe sulla fronte. È anche merito suo, forse soprattutto merito suo (le espressioni anomale del suo volto, lo spettacolare tentato omicidio di cui è vittima, la morte teatrale, le frasi mitiche che si mette in bocca: “gli faremo un’offerta che non può rifiutare”, “Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo...”), che Il Padrino, con il tempo, è diventato un culto più che un cult. E, statene sicuri, non stenterà mai a tramontare. Perché è la ricerca di un tempo perduto, un’epoca perduta.

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