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The Possession

Regia di Ole Bornedal vedi scheda film

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La recensione su The Possession

di M Valdemar
4 stelle

Attingendo alla (esaurita) fonte delle possessioni demoniache, a cui troppi hanno continuato - e tuttora continuano - a sbevazzare causa scarsezza di risorse (creative), The Possession, ad una lettura superficiale e puramente emotiva potrebbe apparire come un discreto horror. Certo non è osceno, neppure brutto (nell’ambito specifico, e nel genere in senso lato, innumerevoli sono le schifezze): l’armamentario canonico di elementi e meccanismi atti a creare le opportune atmosfere, lo sviluppo della tensione, il crescendo degli accadimenti, l’empatia per i personaggi coinvolti, ad instillare la dovuta dose di immagini “de paura” (sottolineate come di consueto dalle impennate sonore), a suscitare l’attenzione dello spettatore fino alla fine, è rispettato in pieno, in maniera prevedibile, e tuttavia efficace.
Scavando, ma neanche tanto, non si può non notare né trascurare e nemmeno perdonare tutto quello che non funziona, che induce a trasformare quel discreto in insoddisfacente. Detto della ovvia inesistente originalità dell’argomento (per fare un parallelo, con The Exorcism of Emily Rose almeno s’introduceva la curiosa variante dell’indagine giudiziaria), ci sono da registrare diverse lacune di sceneggiatura che intensificano la loro portata man mano che il film procede sino alla sua destinazione. Non che si pretenda da un horror - che necessita di concessioni altrove non prese in considerazione - chissà quale diligenza e cura esaustiva in fase di progettazione e scrittura, però se i limiti sono evidenti ed oscurano quanto di buono è stato fatto, va senz’altro segnalato e tenuto in conto.
In particolare, ed a mero titolo esemplificativo, appare eccessivamente forzata, esagerata tutta la parte finale ambientata nell’ospedale. Alla risonanza magnetica effettuata alla bambina posseduta (ai déjà vu fateci il callo ché non si contano), la madre vede la “cosa” e i medici invece non si capisce: un attimo prima sono lì poi svaniscono, cambio di scena, e di loro si sa solo che non li possono aiutare (è ricorrente l’irritante fatto che nessuno comprende alcunché se non i diretti interessati). Poi si scatena il finimondo: il rito, il trasporto in altro loco (con tanto di ascensore), urla strazianti, canti che intonano l’esorcismo, botte da orbi, cambi di ospite, e tutto in ampi desolati spazi senza che nessuno s’accorga di nulla.
Poco e male viene spiegato in merito al demone cattivello - origini, motivazioni, intenti - che s’insinua dentro la bambina rea di essersi incuriosita della scatoletta di legno che lo conteneva (la “casa” dello spirito maligno): è un dybbuk (anzi: una, perché il diavolo è femmina), ha qualcosa a che fare con la religione ebraica, è un po‘ infido; ma in fondo chi se ne importa, poteva essere qualsiasi altra razza di demonio. Svelato il nome, si dice che è conosciuto come “ladra di bambini”, in cerca dell’anima pura: e allora perché dalla figlioletta si “sposta” nel padre? Solo perché questi glielo chiede? Però, tutto sommato gentile. Magari a quel punto poteva azzardare altre richieste (un pettine, per esempio). La presenza leggermente invadente dello spiritello birbante nella fanciulla le provoca, oltre a comportamenti un tantino da fuori di testa anche un non proprio rassicurante look; al che delle due l’una: o sono i frutti di un improvviso abbraccio della “filosofia” emo oppure è l’effetto di un’intrusione diabolica. In ogni caso nessuno s’inquieta per tempo per le “stranezze“ della piccola simil-Marilyn Manson. Eh, i giovini d’oggi.
Il vero colpo di grazia però è dato dall’imperante aspetto familistico da drammone sentimentale, associabile per “levatura” a una telenovela, che nulla ci risparmia sul filone esilissimo dei genitori che si separano: l’”intruso” nuovo compagno di mamma; ripicche rimostranze rivendicazioni tra gli ex consorti; la difficile situazione delle figlie e le conseguenze, i disagi, le complicazioni; persino le (finte) accuse di molestia che portano alla deriva la storia. Ma non si tema: col finale (che è lieto, con classica prevedibilissima coda che fa intuire che la minaccia è tutt’altro che svanita) le cose tornano incredibilmente al loro posto. Riconciliazione fu, e tutti d’amore e d’accordo. Altro che psichiatra: ci voleva giusto un piccolo diavolo.
Su The Possession in teoria c’è il marchio “nobile” di Sam Raimi, che produce: il caso in questione mostra che non è automaticamente sinonimo di garanzia. In cabina di regia c’è il redivivo Ole Bornedal, che non fa danni ma nemmeno spicca. E’ alquanto convenzionale, come molti altri elementi del film, inclusa la recitazione standard del perennemente stropicciato Jeffrey Dean Morgan e della ragazzina, Natasha Calis, che interpreta l’indemoniata (se non ci fosse il trucco …), mentre appare sprecata, relegata in un angolino a fare da sparring partner, la brava Kyra Sedgwick.
Ah, poi c’è quel “basato su una storia vera” sparato in apertura per creare le giuste “vibrazioni” e senso di paura - ma, a parte che fa ridere i polli (posseduti pure loro), ormai non significa più niente, perché è un po’ come il prezzemolo: lo puoi mettere dappertutto.





 

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