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Rewind

Regia di P.J. Dillon vedi scheda film

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La recensione su Rewind

di OGM
6 stelle

Quanta angoscia può essere racchiusa in uno sguardo. Per Karen la paura del ritorno di un drammatico passato è una luce blu, che parte dai suoi grandi occhi per diffondersi nell’aria, e colorare ogni cosa della fredda tinta della disperazione. Quella giovane donna è sotto ricatto. Sta subendo una violenza psicologica di cui non può parlare in casa, dove vive col marito Brendan ed una figlia in tenera età. Karl, il suo ex, col quale, durante l’adolescenza, ha condiviso esperienze di alcolismo e depravazione, è improvvisamente riapparso, come un fantasma in carne e ossa, costringendola a ricordare momenti terribili, che si era illusa di essersi per sempre lasciata alle spalle. C’è anche una videocassetta compromettente, contenente la ripresa di una telecamera nascosta in una camera da letto, che qualcuno ha deciso di copiare per poi, eventualmente, renderla pubblica. Karen è perseguitata da quell’uomo, ma soprattutto dall’idea che tutto ciò che ha saputo costruire, dopo aver completato la riabilitazione, possa essere distrutto in un secondo. Questo film si apre sull’immagine di un terrore solo pensato, sognato, che nasce dall’intimo ed è incomprensibile per il mondo esterno: un incubo notturno che Karen racconta durante una seduta di terapia di gruppo, e nel quale nessuno altro dei presenti mostra di potersi riconoscere. Spesso l’inferno è un luogo individuale, tagliato su misura sulla storia di una singola persona, e sommerso dal silenzio. La protagonista lo attraversa scoprendone poco a poco le insidie, lungo un percorso tortuoso che prende sempre più la forma di un subdolo raggiro. Un torbido incrocio fra thriller e road movie si innesta su un tessuto nervoso scosso da brividi di fragilità e scariche di rabbia mista a rassegnazione. Karen è l’animale ferito, che si sente braccato e sa di non avere scampo, e per questo si rimette all’umanità del cacciatore. In fondo, per quanto sgradita le risulti la presenza di Karl, in quest’ultimo vede l’unica possibilità di salvarsi da uno scandalo che potrebbe riportare la sua vita a quello squallido punto di partenza. Karen si sottomette per necessità; in un primo momento si ribella, però subito dopo si rifugia dietro quella figura dal carattere inequivocabilmente negativo, dalla quale, in fondo,  è convinta di poter ricevere protezione.  In questo modo la vittima dello stalking  si trasforma, senza rendersene conto, in una complice forzata, che asseconda un uomo cinico ed invadente, erroneamente scambiato per un vecchio amico che, quand’anche in maniera non del tutto disinteressata, è venuto in suo soccorso. Karen soffre, ma non ha la forza per sottrarsi al suo potere, che fa leva anche sul suo senso di colpa per gli errori commessi da ragazza, e per le gravi ripercussioni che questi ora rischiano di avere sulla felicità della sua famiglia. Fremente di rimorso e di rimpianto, partecipa al gioco con tutta la sensibilità di cui è capace, cercando di imporre limiti che poi lei stessa non è in grado di rispettare. Incoscientemente, si immette in un vicolo cieco,  e poi non riesce a fermarsi. La sua esistenza testimonia, in vario modo, l’impossibilità di andare avanti da sola: Karen ha sempre bisogno degli altri, di qualcuno che la ami, che la guidi, che le dica cosa fare.  Rewind ne traccia un fine ritratto psicologico, accuratamente avvolto intorno alle fibre della tensione; purtroppo poi lo abbandona per assumere, nell’ultima parte, le sembianze di un dozzinale giallo a sfondo horror.  L’epilogo disorienta lo spettatore che, fino ad allora, poteva credere di trovarsi di fronte a un discreto film d’autore. La regia, improvvisamente, scade, lasciando che una buona dose di banalità si faccia largo nel racconto. Si perde, così, il senso di un discorso inizialmente ben impostato, che poteva sfociare in qualcosa di ben diverso rispetto alla solita, facile morale, affidata, in questo caso, ad un  macabro e retorico happening  finale.

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