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Hotel Magnezit

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Hotel Magnezit

di OGM
8 stelle

Il capro espiatorio. Nel primo cortometraggio di Béla Tarr si respira l’aria della più primitiva delle ingiustizie: quella del gruppo che si accanisce contro il suo elemento più debole, onde riversare su di lui la rabbia provocata dal disagio. Tibi Szepesi, anziano operaio presso uno stabilimento siderurgico, ha rubato un motore all’interno della fabbrica, e per questo perde il lavoro,  e gli viene ordinato di lasciare l’alloggio che occupa insieme ad altri dipendenti della stessa ditta. Non è lui il solo colpevole, ma i suoi colleghi, nonché complici del furto, sono ben felici di potersi liberare di lui e del peso di una grave accusa. Lui è il più vecchio, quello che, essendo giunto alle soglie della pensione, ha meno risorse, ma anche meno responsabilità, e meno anni da vivere. È facile additarlo come unico responsabile del misfatto, anche perché appartiene ad una categoria che, all’interno della società, è relegata in una posizione marginale, perché ormai fuori dal ciclo produttivo. A nulla vale l’onore conquistato sul campo di battaglia da lui, ex tenente dell’aviazione ungherese, che ha combattuto nell’ultima guerra. È sopravissuto a tre abbattimenti, ma ricordare le sue imprese a coloro che lo accusano ha, come unico effetto, quello di ispirare crudeli battute umoristiche, come quella secondo cui i tre incidenti non possono non avergli procurato un danno al cervello. Ad avere perso la memoria della propria storia è anche l’Ungheria del socialismo reale, in cui l’inquadramento è forse (pretestuosamente) rivolto ad un luminoso avvenire, ma, in nome di un rinnovamento radicale, rescinde ogni legame col passato. Dimenticare ciò da cui si proviene, liquidando così ogni eventuale debito con chi ci ha preceduto, è un meccanismo che annienta il patrimonio culturale, e priva una nazione della sua millenaria identità. L’ambientazione di questo film è un non luogo: un apparente spazio chiuso, che contiene alcuni mobili e fa pensare ad uno spogliatoio o a una foresteria, ma del quale è impossibile riconoscere i confini, perché la macchina da presa mette a fuoco solo i personaggi e l’azione, con riprese a distanza ravvicinata che impediscono allo sguardo di cogliere la reale estensione e collocazione della scena. Spesso si ha la sensazione che là dietro si estenda un nulla vuoto e buio, e che ciò che vediamo sia solo un ristretto scampolo di realtà illuminato da un riflettore. In  quel piccolo cono di luce, un evento circoscritto e irrilevante si fa teatro, ed è, nello stesso tempo, commedia, dramma e tragedia: sul palcoscenico si parla, e tanto, si litiga, ci si racconta, e la parabola esistenziale appare così nella sua interezza, delineando i dolorosi contorni della farsa premeditata, del tradimento, della fine dell’amicizia, della caduta in disgrazia, dell’oblio delle genti. Tibi è l’eroe di un’umanità malata, affetta dall’assenza di prospettiva universale, che ingigantisce i propri conflitti comprimendoli nelle anguste celle della mancanza di benessere e libertà. L’uomo è come costretto a odiare, a trascurare, a non rispettare l’altrui dignità perché oppresso; la cattiveria, il cinismo, la miseria morale sono i prodotti dei regimi autoritari, le cui ideologie pretendono di sostituirsi alle coscienze individuali. In simili circostanze, come i compagni di stanza di Tibi, ci sentiamo sollevati dall’obbligo di esaminare le situazioni a fondo, avvalendoci dei nostri ricordi e dei nostri criteri di giudizio, e possiamo cedere alla tentazione di affidarci comodamente alle regole decise da altri. In questo film la figura della portinaia, che intima più volte a Tibi di fare le valigie e andarsene, incarna l’autorità come fredda esecutrice delle prescrizioni di legge, che, nel suo burocratico distacco,  non conosce altra ragione. Il suo linguaggio corrisponde a formule fredde e concise, tanto diverse dal fiume di parole accorate che Tibi pronuncia davanti a coloro che lo condannano senza appello. Raccontarsi, rivendicare la propria dignità di persona che ha vissuto, è l’estrema arma di difesa  di chi si vede respinto e perduto. Béla Tarr, già in questa sua breve opera d’esordio, traccia, in un contesto improntato ad un realismo crudo ed essenziale, un primo, convincente abbozzo della sua letteratura della vittima, del prigioniero, dell’ostaggio: un lirismo che, vuoi, come qui, su scala ridotta, vuoi in chiave universale, come in Perdizione o Le armonie di Werckmeister, è il vero marchio distintivo di una filmografia che oppone, agli imperscrutabili principi di un mondo spietato e indifferente, la tanto nobile quanto disperata poesia della lotta impari.   

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