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Takva: A Man's Fear of God

Regia di Özer Kiziltan vedi scheda film

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La recensione su Takva: A Man's Fear of God

di OGM
8 stelle

Esiste una religiosità collettiva, che si esprime in maniera rituale, corporativa ed istituzionalizzata; e ne esiste una individuale, in cui il rapporto con Dio è mediato unicamente dalla coscienza. La prima è una forma di potere, che, per sopravvivere, ha bisogno del sostegno del denaro, della fama, del consenso politico. La seconda è, invece, una poesia interiore, che non conosce altro punto d’appoggio che l’esperienza personale, e per questo si può tramutare in un tormento. A questo dramma sono maggiormente esposte le anime più sensibili ed innocenti, che, pur essendo quasi completamente immuni dalle tentazioni mondane, sono più inclini a colpevolizzarsi. Muharrem è un uomo sulla quarantina che  lavora come magazziniere in una rivendita di sacchi di plastica, ed è sinceramente devoto ad Allah. Infatti corre a pregare e a purificarsi ogni volta che, di notte, gli capita di sognare azioni peccaminose: la sua obbedienza ai precetti divini è segno di una fede profonda ed autentica, benché vissuta con un candore infantile. La sua docilità, e la sua moralità ispirata ad una naturale predisposizione all’obbedienza, inducono lo sceicco,  capo del seminario coranico, a sceglierlo come curatore dei beni dell’istituto. Muharrem gli sembra affidabile perché è ingenuo, e troppo poco istruito per poter ordire truffe e malversazioni. L’uomo non conosce la furbizia, ed è preciso e scrupoloso nell’espletare i compiti che gli vengono assegnati. Le sue spalle deboli non sono però in grado di reggere il peso del prestigio derivante dal suo nuovo incarico, in conseguenza del quale tutti lo chiamano maestro ed il suo datore di lavoro, il commerciante Alì,  lo solleva dalle mansioni più umili e gli affianca un assistente, arrivando persino a cedergli una parte delle responsabilità relative al negozio. Muharrem, improvvisamente, si scopre grande, avendo effettuato un salto di categoria che mai si sarebbe aspettato. Tuttavia gli agi e i privilegi non lo cambiano, non intaccano minimamente la sua indole  pacifica e comprensiva, inflessibile solo riguardo alle prescrizioni della fede islamica. In altri termini, Muharrem rimane un bambino, incapace di fare del male, se non quando il diavolo lo sorprende nel sonno. E questa impossibilità di evolversi verso la maturità sociale, quella condizione adulta che prevede la capacità di addivenire a compromessi e di  far fronte ai propri errori, trasformeranno la sua fortuna in una maledizione senza fine. Il film di Özer Kiziltan ritrae il timore di Dio nei suoi risvolti deteriori, quelli che opprimono l’umanità attraverso l’omologazione, ossia un’acritica sottomissione di comodo ad un’autorità che suggerisce comportamenti ed usanze, oppure attraverso l’oppressione della libertà di pensiero, che imbriglia la mente in schematismi dogmatici, impedendo all’individuo di crescere mediante il confronto attivo e diretto con le concrete situazioni della vita. Così la reazione di Muharrem, di fronte alla consapevolezza di essersi cacciato in un guaio, è teatrale come un pianto di un bimbo; è l’espressione di una disperazione primordiale, di chi scopre per la prima volta l’imbarazzo dello sbaglio, della necessità di chiedere scusa e rimediare, che è poi solo la parte superficiale di una tragedia ben più grave: quella che vede la sua anima macchiata da un terribile peccato. Da quest’ultimo Muharrem non trova via di scampo, perché l’elaborazione di quel tipo di dolore non è scritta nelle regole secondo cui è abituato ad organizzare l’intera sua esistenza. Le uniche soluzioni praticabili si chiamano sacrificio, estasi, follia, consacrazione: e sono tutte sinonimi di una fuga dalla realtà, verso un luogo che si trova al di là dell’incubo,  in cui non arriva il lume della ragione, e la vita si confonde con la morte, il terreno col divino, il santo con il demoniaco. Questa si chiama la catarsi. O forse si chiama la fine del mondo.

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