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Il villaggio di cartone

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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La recensione su Il villaggio di cartone

di OGM
8 stelle

Piccolo teatro simbolico a sfondo religioso. L’accoglienza è un concetto che alberga nel cuore: la sua abitazione è angusta, semplice e disadorna come la vogliono la modestia e la sincerità. Dalla chiesa del vecchio sacerdote sono scomparse, per volere di non meglio identificate autorità, tutte le insegne cattoliche: il tempio smantellato si prepara così a divenire la casa di tutti, in cui l’amore parla una lingua universale, che si rivolge direttamente all’uomo, senza l’intermediazione di alcun codice confessionale. Gli immigrati clandestini che vi trovano rifugio sperimentano questa forma di condivisione primitiva, non contaminata dalle sovrastrutture culturali prodotte della civiltà: l’acquasantiera, tolta dal piedistallo, viene posata sul pavimento perché funga da catino di raccolta per la pioggia che cade attraverso un buco del tetto. I manifesti delle processioni e delle feste liturgiche si trasformano nelle pareti di improvvisate capanne, costruite appoggiando teli sulle file di banchi che fino a poco tempo prima ospitavano i fedeli durante le messe. Ora servono da riparo a coloro che in quel Dio non credono, perché appartengono ad una tradizione diversa, o anche  perché rispondono soltanto alla propria voce interiore. L’essere umano è una realtà complessa, che risulta tale soprattutto quando l’individuo si mostra spogliato di tutto, staccato dal proprio ambiente e dai propri averi, come quando si ritrova esule in una terra straniera. Ciò che rimane, della sua immagine, è la sua natura di individuo che ama e procrea, che lotta per un ideale, che si umilia per sopravvivere, che si spende generosamente per il prossimo, ma anche che si lascia accecare da una fede sbagliata, che tradisce per interesse personale, che nega un aiuto per puro egoismo. I profughi raccolti in quel luogo sacro rappresentano tutti questi aspetti, in maniera stilizzata, forse addirittura stereotipata, ma comunque tale da impedire che il senso di un dramma che è di tutti, ed assume proporzioni storiche, si disperda nel labirinto delle vicende personali. Il copione di questa rappresentazione prevede ruoli, non passioni: esattamente come nei racconti biblici e nelle parabole neotestamentarie. La stessa solitudine del vecchio sacerdote, di cui non conosciamo la storia, è il cardine di questa trasposizione mondana del messaggio evangelico; è la caratteristica che contraddistingue il profeta, che è compreso e venerato da pochi reietti, malvisto o ignorato dalla maggioranza e perseguitato dai potenti. È il debole che viene messo da parte, che è insidiato dalla violenza e lambito dalla morte, eppure vince la sua battaglia invisibile, che avviene dentro le anime, e lontano dagli occhi del mondo. Il suo percorso ha il respiro sommesso della stanchezza, appena udibile eppure ostinato a continuare a combattere, con le armi silenziose della pazienza e della tolleranza. Chi vuole ascoltare evita di fare rumore. L’ispirazione sceglie il sussurro, e rallenta il ritmo delle parole, per togliere fiato alla retorica. Con Il villaggio di cartone Ermanno Olmi ha voluto infrangere la sua promessa di abbandonare il cinema. Ha voluto tornare sui suoi passi, per andare incontro ad una meta che supera l’orizzonte dell’arte. E si è incamminato in punta di piedi.

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