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L'apollonide (Souvenirs de la maison close)

Regia di Bertrand Bonello vedi scheda film

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La recensione su L'apollonide (Souvenirs de la maison close)

di OGM
8 stelle

Quanta banale e meccanica tristezza, nel bordello della cosiddetta belle époque. In quell’ombroso teatro del segreto, il declino morale anticipa quello delle illusioni. In mezzo ai decori si ama svogliatamente, con la stanca ripetitività di chi non ha più nulla da scoprire, perché tutto è già stato detto e negato. Con un incedere lento si fanno strada una cupa crudezza ed un languore che sa di stantio: la passione consuma i suoi postumi in una ritualità sinistra e priva di luce. Tutto si dissolve in polvere, come la bellezza, e come una recitazione che si disperde in spizzichi di improvvisazione, che si affacciano sulla scena per un istante, e poi si ritraggono come impauriti. L’ultimo film di Bertrand Bonello, candidato alla Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, è un’opera volutamente stentata, che traduce gli inutili sforzi con cui un mondo ormai opaco insegue lo splendore di un tempo. La calda patina della poesia si è definitivamente scollata da quello che una volta era il favoloso regno di una squisita eccentricità: un salotto dagli arredi sontuosi, che faceva da elegante anticamera alle sfrenate fantasie dell’istinto. Il quadro ha conservato il suo trucco di colori vivaci, ma, sotto la maschera, nasconde una realtà pallida e scheletrita, sfigurata dall’aberrazione del caos. Tra le prostitute de L’Apollonide c’è chi viene   deturpata da un cliente, chi contrae la sifilide, chi diventa schiava dell’oppio, chi viene venduta per far cassa. È il tramonto di un mito: la donna proibita è solo merce, e non fa più sognare. È una compagna che è diventata parte di un’abitudine, e per questo, alla lunga, è venuta a noia. Occorre una buona dose di immaginazione, o di perversione, o di disperazione, per strappare, a quella sorgente ormai secca, l’ultima  goccia di amara voluttà. Vecchio è anche l’antico, eccitante senso del peccato, che è stato soppiantato dalla morbosità con cui si partecipa ad uno spettacolo da baraccone. Il gusto di guardare, giocare, vivere la propria stranezza ha sostituito il genuino piacere di desiderare. La scena è un circo che si replica ogni sera: anche il tempo ritorna su se stesso, ingabbiato in quell’ambiente chiuso da cui non riescono a fuggire nemmeno i pensieri. Il futuro non esiste, se non nei sibillini responsi dei tarocchi. La prigionia è totale, e si estende oltre la fine di quella missione mercenaria,  abbracciando la sventura, la malattia e la morte. Le bambole che abitano quel luogo si mettono in posa per gli uomini che, senza entusiasmo, le vanno a trovare, conoscendo a memoria ciò che li aspetta. Sono figurine vestite, profumate, tirate a lucido, rimesse a nuovo dopo ogni esibizione: impacciate e finte, appaiono vere e naturali solo quando soffrono. Sono burattini di carne, il cui corpo, docile e malleabile, è rimasto impregnato fino al midollo di quella realtà viziosa, che invade anche gli ultimi, personali scampoli di libertà, come le confidenze tra amiche ed i sogni notturni. Quello stagno delle ore perdute, in cui l’umanità si immerge per dimenticare, è un nulla che per quelle ragazze è, forzatamente, un tutto avvolgente, protettivo ma soffocante. La storia della maison close parigina gestita dalla vedova Marie-France è il destino grottesco delle istituzioni che sopravvivono alla perdita del loro significato; è il percorso insensato e tragico di chi, testardamente,  continua a credere nel proprio valore anche quando tutti, là fuori, si beffano di lui.

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