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Post mortem

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Post mortem

di MarioC
9 stelle

I film di Larrain partono come il manifesto di un’inadeguatezza personale, e all’apparenza tutt’altro che politica (poiché la politica sembra territorio alieno, incapace di impastarsi con una quotidianità grigia e senza slanci). Ma hanno la capacità di allargare il mirino e l’angolo di osservazione, fino a farsi opere pienamente politiche, lucidi e rassegnati pamphlet, resoconti impassibilmente disperati del buio di una mente, di un atto, di una intera nazione.

L’autopsia è il cercare in un corpo inerte le ragioni possibili di una vita e di quel clic che l’ha spenta. Penetrare nelle carni molle, nelle ossa, sporcarsi con il sangue. Per capire, quando e se una possibilità di comprensione esista. Post mortem è invece una accorata dichiarazione di impotenza da parte di un autore che fa l’esame autoptico ad uno Stato, il suo. Il Cile del 1973, e di molti anni a seguire, altro non era che un corpo inerte, morto nei pensieri, defunto nella coscienza, venduto alla forza e privo ormai di forze proprie.

E chi è Mario Cornejo, colui che trascrive i referti autoptici, che verga in bella copia l’indicibile soffio della fine, che torna a casa e si tira una sega, che mangia uova fritte, che non sa perché quei giovani innalzino drappi rossi, mentre tutto intorno inizia ad aleggiare quel senso di morte che in lui già circola senza lasciare traccia? Cornejo è un uomo del popolo, quel popolo che risponde a regole codificate, ed agisce secondo la direzione del vento, che ha una banderuola al posto del cuore. Cornejo è il volto impassibile che non conosce le rivolte impossibili, è l’animo martoriato dal nulla, è colui che si siede sulla corsa veloce degli accadimenti perché così sta scritto (altri hanno scritto per lui, lui scrive solo autopsie), è l’uomo medio che non sa leggere, miope e presbite, prossimo ad una scontata cecità. È l’amore che non conosce gioia, bigio come gli occhi spenti dell’oggetto del desiderio, come la strada che presto diventerà rossa (di bandiere e poi di sangue). Cornejo è il Cile, naturalmente: fagocitare i propri simili, e dunque se stesso, per darsi finalmente un codice di riconoscibilità, una patente di utilità.

Larrain tiene ferma la macchina da presa, la sublima in inquadrature fisse che non guardano avanti, perché un avanti non c’è, non ce n’è mai stata nemmeno l’ipotesi. Osserva la discesa agli inferi di un’anima che non conosce inferni, ma nemmeno paradisi e purgatori, e che l’inferno decide però di viverlo. Registra la fine dei sogni, regala un pezzo di cinema maestoso (l’autopsia illustre, laddove la storia deflagra tra le quattro mura di un laboratorio scientifico e nella mente obnubilata di un mediocre) ed un finale che a ragione può definirsi come uno dei più angosciosi di tutti i tempi.  Un finale che è solo un rumore di morte, un fracasso di disperazione: roba che si accatasta, vite sepolte vive, coscienze che si gettano alle ortiche, pronte per le fogne o per una delazione, cambia poco. Il Cile e l’asfissia, il Cile e una porta che non si aprirà più, una nazione incapace di respirare e di volare, una radio che pure suonerà fino alla fine, cadaveri che andranno ad affollare il tavolo autoptico. E Cornejo continuerà a scrivere. Ma anche Cornejo ha ucciso il Cile, non solo il suo amore malato, e il Cile è morto. Clic.

 

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