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L'uomo che verrà

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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La recensione su L'uomo che verrà

di Kurtisonic
8 stelle

Non può che cominciare nel buio, come quando si sogna, come un ritorno a prima della nascita, senz’altro che i suoni secchi della notte. La luce invece mostra la guerra, siamo nell’inverno del 1943 in una delle piccole comunità rurali di Monte Sole, la zona di Marzabotto, e la ricostruzione storica, pudica e minuziosa che Giorgio Diritti compie, offre lo sguardo degli abitanti di quelle zone, di chi ha subito incondizionatamente quegli avvenimenti, di chi li ha vissuti, equidistanti dalle parti in gioco senza equivoci e senza forzature. A Diritti non interessa schierarsi, e non c’è bisogno, mentre descrive la vita della comunità, le implicazioni e i delicati equilibri che le persone devono imporsi di seguire per sopravvivere. La vicenda è narrata con gli occhi di Martina, una bambina muta da quando è morto il fratellino, e che adesso attende trepidante la nascita di quello nuovo, di quello che verrà. Sarà lei a mutare il destino, a rompere la catena di ritorsione e di vendetta che contraddistingue la storia dell’uomo, ieri come oggi.  Con il suo stile documentaristico, dall’approccio antropologico già apprezzato nel precedente Il vento fa il suo giro, Diritti immerge lo sguardo nella realtà storica e sociale fra odori, sensazioni, suoni così ricorrenti e nascosti nella memoria da diventare senza tempo. Il film si avvale nel parlato del dialetto locale sottotitolato, e la narrazione ne beneficia in realismo, in concretezza, amplificando ed estendendo i contenuti drammatici in un tempo dove le parole erano poche ma significavano di più. Se i colori notturni appaiono estasiati, quasi fiabeschi in alcune riprese, la natura alla luce del giorno offre sprazzi di una materia viva e pulsante con tonalità e sfumature che oggi non esistono più in un bosco per quanto l’uomo ha offeso il suo habitat, o forse non sappiamo più vedere. La mano sensibile di Diritti restituisce qualcosa che non ci appartiene più, lo scenario naturale dunque, ma sono anche gli ambienti a parlare soprattutto, dentro le stanze, nelle cucine, nelle stalle, non solo si percepisce l’atmosfera che i vari personaggi trasmettono, ma si respira l’emanazione della storia che impregna lo sguardo e non può che portare ad un forte coinvolgimento emotivo, a sentire l’anima di quei luoghi, a sentirli come qualcosa che ci tocca e ci riguarda. Il regista si è avvalso di un gruppo di attori professionisti, Maya Sansa Alba Rohrwacher Claudio Casadio su tutti, che con un eccellente prova dimostrano tutta la loro bravura e la loro capacità di penetrazione in un racconto così forte che li mette al proprio servizio. Gli altri protagonisti sono il frutto di un’accurata selezione che il lavoro attento del regista e dei suoi collaboratori ha scandagliato fra tanti volti, ricercando sguardi, ricordi, sfumature che hanno rivelato una perfetta aderenza con la storia. Il codice sonoro del film è tanto semplice quanto complesso e determinante.  I rumori di scena incastrati fuori e dentro lo schermo e montati con precise scelte, fanno da corollario alle lingue parlate e non (questa , di Martina), estendono la ricostruzione cinematografica collocando lo spettatore in una posizione di stretta relazione con i personaggi, in una vicinanza quasi fisica. Tutto è girato in presa diretta, gli abitanti del borgo si esprimono nel dialetto locale e all’occorrenza usano un italiano stentato, gli sfollati dalla città che si misurano con un linguaggio più forbito, l’incomprensibilità con i soldati tedeschi e non ultimo il latino dei preti, simbolo di lontananza, resa della speranza di fronte alla follia umana. Allora sono i gesti a prevalere, ad occupare ciò che non si spiega, le ferite sanguinanti dei partigiani da soccorrere, le foto dei figli mostrate dai tedeschi mentre si riforniscono di vino, pane e uova dai contadini, i soldi usati come estrema merce di salvezza per la propria pelle dai ricchi venuti dalla città. Tutto concorre a sottolineare la tragicità, l’assurda preminenza dell’uomo a prevalere sull’altro, la determinazione a non riconciliarsi nè con il mondo che si desidera, nè con quello in cui tocca vivere. L’uomo che verrà contiene nel suo titolo un messaggio di speranza a tutt’oggi vano: le guerre sono diventate intelligenti, ma il sangue scorre ancora in nome di poteri economici, politici, religiosi, finanziari. Il film ha raccolto diversi riconoscimenti, meritatissimi, speriamo che il regista continui con lo stesso rigore morale a smascherare, a denunciare verità.

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