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Ho ucciso mia madre

Regia di Xavier Dolan vedi scheda film

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La recensione su Ho ucciso mia madre

di OGM
8 stelle

Xavier Dolan a soli vent’anni scrive, dirige ed interpreta un film che a Cannes si aggiudica tre premi. Un’opera piena di una forza giovane, che si scatena in fiumi di parole e in eccessi di espressività,  ma anche in attimi di immobilità e silenzio, in cui lo stordimento si fa contemplazione. L’idea vincente è trasformare i sentimenti negativi, quali la rabbia e il rancore, e le emozioni meno nobili, come il delirio indotto dagli stupefacenti, in una forma d’arte primitiva e genuina, in cui l’interpretazione sgorga dal corpo come un fiotto di energia.  Lo stile monologico riproduce lo sforzo di essere, di farsi capire, di giustificare la posizione assunta in un mondo che non sembra fatto per essere amato. Hubert Minel è un sedicenne canadese che vive insieme alla madre Chantal, separata dal marito, ed ha con lei un rapporto altamente conflittuale, che egli, per la sua parte, non esita a considerare una vera e propria forma di odio. Nei suoi sogni la vede morta, nelle sue fantasie letterarie immagina addirittura di ucciderla con le proprie mani, e nulla sembra poterlo riconciliare con una donna di cui non approva i gusti e di cui rifiuta le imposizioni. Quella donna, che veste male e si dedica a passatempi insulsi, rappresenta per lui un’antitesi nociva, con cui è pericoloso dialogare e che, oltretutto, limita la sua libertà. È una figura femminile convenzionale, severa e mentalmente chiusa, così diversa dalla madre del suo amico Antonin, estrosa e spregiudicata, e dalla sua insegnante Julie, che ama la letteratura e sa ascoltare. Con sua madre Hubert non riesce ad avere un confronto sereno, e per questo motivo il loro tormentato ménage è improntato allo scambio di favori e concessioni, e, da un certo punto in poi, alla pura e semplice vendetta. Questa passa anche attraverso l’allontanamento: lei spedisce il figlio in collegio, e lui fugge. D’altronde Hubert nutre da sempre il desiderio di escludere Chantal dalla propria vita: non si confida con lei, le nasconde la propria relazione omosessuale, e manifesta apertamente la volontà di andare ad abitare da solo. È molto accidentata la strada che porta alla rivelazione finale: la scoperta che l’amore per la madre è un attaccamento innato e imprescindibile, incondizionato ed impossibile da ridurre ad una questione di accordi, di equilibri, di pareggio del bilancio. La guerra si combatte sulle cose esteriori, a cui appartiene anche la gestione degli spazi vitali: ma quando, nella solitudine, l’anima fa sentire la sua voce, emerge una verità che i pensieri non possono spiegare, e le circostanze non possono cambiare. Hubert affida alla sua videocamera le confessioni di un cuore tormentato, più che dai dubbi e dai dilemmi, dalle certezze che risultano contraddittorie e incomprensibili: “Io la amo, è vero. Ma non è l’amore di un figlio. È strano ... se qualcuno le facesse del male, avrei voglia di ucciderlo. Lo ucciderei.  Eppure ... mi vengono in mente cento persone che amo più di mia madre.”  Questo film è basato su una geometria nitida, eppure arruffata, come le spruzzate di colore dei dipinti di Jackson Pollock; il contrasto è una  precisa divisione di campi, che, però, può anche uscire dai margini, ed assumere un profilo zigzagante, come nei tira e molla che caratterizzano i momenti di crisi. In ogni caso, le differenze finiscono per disegnare i contorni di un’armonia intrinseca e nascosta, priva di corpo, che non può essere direttamente nominata, né definita dal suo interno: un’entità invisibile, che appare solamente chiudendo gli occhi su tutto quello che si trova intorno.

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