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Una notte blu cobalto

Regia di Daniele Gangemi vedi scheda film

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La recensione su Una notte blu cobalto

di OGM
6 stelle

Forza Dino, tocca a te. Lo so che ci vuole coraggio … Il blu è il colore dei sogni più importanti, quelli che fanno paura, perché sono come realtà alternative. Non v’è nulla di più spiazzante di un desiderio che di giorno si nasconde, corre via dalla luce del sole, per ritornare di notte, e mostrarsi a portata di mano. L’impossibile diventa allora meravigliosamente facile, quando la ragione dorme, e i suoi tormenti svaniscono, lasciando l’animo libero di allungare la mano, e toccare, finalmente, le sue fantasie. Quella dimensione straordinaria, avvolta nell’ammiccante bagliore dell’oblio, è il rifugio di tutti. O meglio, di tutti coloro che, arrivato il momento giusto, sono in grado di non porsi più freni, e spingere l’immaginazione oltre i confini della normalità, fino alla parete che, laggiù,  chiude il vicolo cieco della nostra limitata umanità. È lì che, dando corpo alle nostre chimere, ritroviamo noi stessi. Quel muro è lo specchio in cui ci vediamo, improvvisamente, pronti al grande passo: pronti a staccarci definitivamente da ciò che pensiamo di essere, da ciò che gli altri ci chiedono di dare, per plasmare i nostri sentimenti a nostra immagine e somiglianza. Dino Malaspina è già buon punto. Ha appena percorso quel primo pezzo di strada che conduce a svuotare se stessi dai fantocci delle delusioni che qualcuno ha voluto deporre in noi: una madre che ci voleva belli, bravi e brillanti, una fidanzata che ci lascia paragonandoci ad una biglia, un oggetto privo di moto proprio. Quel ragazzo, studente svogliato e senza speranze, interiormente si è fatto grande e spazioso  come la veduta aerea della sua Catania. Ha creato dentro di sé un vuoto disperato, un abisso di inutilità che predispone ad ogni tipo di scoperta. Questo film si presenta, inizialmente, gravato dell’amaro realismo del disagio giovanile, quello dal carattere indefinito, di origine sconosciuta, non legato allo svantaggio economico né all’emarginazione sociale. Dino incarna la solitudine senza un perché, costruita come una corazza intorno ad un senso di inadeguatezza che le circostanze non giustificano, né favoriscono,  ma che pure riesce a cogliere ovunque nuovi pretesti per rafforzarsi. Dino è uno sdraiato per convinzione, un reietto che si rannicchia nella propria presunta diversità. E rimane inerte fino a che la sua voglia di autonegazione non passa dai pensieri ai fatti. Dino capisce che oziare,  crogiolandosi nei ricordi, non basta a farsi definitivamente del male, a porre la parola fine alla propria disgustosa vita. Occorre un’umiliazione concreta, che davvero annienti gli ultimi residui della sua esistenza interrotta, le scorie della felicità che fu, del futuro che poteva essere. Dino si mette a consegnare pizze. La sera cavalca la sua vespa e gira per la città, a suonare ai citofoni, ad entrare in case di gente strana, che sembra avere bisogno di tutt’altro che una margherita o una napoletana. Dino incontra altre mancanze, bizzarre ed incomprensibili come quella da cui egli stesso è afflitto, e trova conferme al suo sgomento: il problema ha mille facce, mentre invece la soluzione, apparentemente, non ha volto. La conoscenza di sé richiede il confronto con il proprio riflesso imperfetto, a tratti  banale come un patetico vizio, a tratti stravagante come l’aforisma di un antico saggio cinese.  L’idea alla base di questo film mescola l’ingenuo incanto della favola con lo spessore psicologico dell’elemento onirico, di cui cerca di riproporre – pur se con risultati non eccelsi -  la sfuggente nonché paradossale complessità. Il tono è coinvolgente e toccante, anche grazie alla convincente interpretazione del protagonista Corrado Fortuna (sempre romanticamente stralunato come nel precedente My name is Tanino). Tuttavia, in questa commedia di formazione, discretamente intinta nel meridionalismo filosofeggiante alla Sciascia, c’è qualcosa che odora di occasione sprecata. Sarà per via di quella scrittura sapiente ma priva di originalità, o forse per colpa delle eccessive concessioni ai cliché della narrazione televisiva ad effetto: comunque sia, tutto fila troppo liscio per un’opera che ambisce a pizzicare le corde del dramma.  Una volta tanto, un po’ di ruvidezza in più non avrebbe guastato. 

 

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