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Identikit di un delitto

Regia di Andrew Lau vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Identikit di un delitto

di ROTOTOM
4 stelle

Infernal Affairs sotto il sole dell’America. Affari di bambini rapiti, di sottomondi perversi e miti eroi, stanchi di essere miti che cercano di arginare la sempre più imponente esondazione di aberrazione & perversione verso il prossimo che connota la nostra era come la più buia dal punto di vista morale dal medioevo ad oggi. Sotto il sole si muove un granitico (come espressività) Richard Gere (l’agente federale Errol Babbage) diretto da un grande conoscitore del genere noir/thriller quale è l’hongkonghese Andrew Lau, il creatore delle doppiezze di Infernal Affairs I, II, III. La storia è cupa sotto il sole, di quella cupezza intima e torrida che fa sfrigolare l’asfalto , quella fotografia satura che fa deriva emotiva, quel montaggio frammentato e sincopato che instilla follia. Campi lunghi su lunghissimi campi incolti e un’auto marrone che arranca verso chi sa dove per salvare chi sa chi, lungo quel nastro d’asfalto nero come la vena di un morto.
Da salvare c’è una bionda cavallerizza teenager bionda e alta, prototipo della All American Girl tutta salute, fortuna & futuro radioso e quindi profondamente ignara della zona d’ombra che sta ai margini della vita degli altri, scontornandola di un nero minaccioso sempre più desideroso di non fare per sempre da contrasto per i colori altrui. Così è che viene rapita, per bizzarre pratiche sessuali.
Il tema è forte, è brutale, e c’è il rischio o di scadere nel rozzo thriller tutto effettacci quanto nel diluire tutto nella banalità della retorica buonista sui mali della società, così, in generale. In mezzo sta la non scelta del ciò che viene viene, intima cautela del primo film americano di un talento vero, Andrew Lau che ha avuto l’onore di essere ricalcato a figura d’Oscar (The Departed aka Infernal Affairs) nientepopodimenoche da Martin Scorsese in persona. Dovrebbe essere una garanzia, Lau. E lo è, alla regia. Ma la storia non è sua, non è scritta da lui. Gli attori non sono i suoi. Ed alle lucide pareti riflettenti di acciaio e vetro degli ambienti teatro degli Infernal Affairs si sostituisce una polverosa provincia americana. Freddo e recitazione trattenuta, contro caldo e recitazione emotivamente esplicita. Sottile e perfido doppiogiochismo in salsa noir contro palese divisione dei cappelli bianchi e neri della sceneggiatura western di questo film. Frantumazione dello sguardo e moltiplicazione del punto di vista con continui ribaltamenti e riaperture a sorpresa delle ellissi narrative degli Infernal Affairs contro una struttura lineare che più lineare non si può. Non è un film di Lau questo film di Lau. Ci si va a onor della firma ma chi non lo sapesse di nulla si accorgerebbe. Così si assiste ad una seriosa stereotipata, anche se di classe (bisogna dirlo), di tutti i luoghi comuni della cinematografia noir, in cui il tema pruriginoso dei crimini sessuali viene pudicamente anestetizzato con Morale & Etica a favore del lieto fine e la punizione giusta per i cattivi. In cambio ci viene dato qualche sussulto “new horror-torture porn” nell’(h)ostel(lo) dei depravati che si frustano e si appendono ai ganci in ambienti degradati e sudici e dei maniaci che esternano l’intenzione di mutilare (Saw) le curate estremità della loro giovane, innocente preda in un gioco –torture- di sesso – porn - estremo. Troppo poco, il Mostrare è sempre meno disturbante dell’oblio dei personaggi, nel loro discendere gli oscuri e tortuosi sentieri che conducono all’abisso dell’animo umano. Millantare ancora peggio. Il buon Gere che vuole farci credere di essere approdato dalla parte oscura della Forza, ( grazie ad un montaggio frammentato, ad una fotografia satura ed evocativa e un paio di schiaffetti ad un adolescente) quella che muove le pulsioni distruttive dell’uomo, dura un secondo per poi fare ammenda e marcia indietro. Il bilico è in realtà una rassicurante passerella sul nulla sulla quale i turisti guardano giù e scattano foto da mostrare agli amici, quando saranno a casa. Del resto lo dicono un paio di volte, che quando guardi troppo l’abisso, l’abisso poi guarda te. Ma poi non succede nulla e ognuno rimane dalla propria parte a guardare l’altro come semplici conoscenti all’aeroporto. Il transfert emotivo tra i due protagonisti (l’esperto e la novizia) viene giustificato dalla cronaca di due righe di sceneggiatura senza il conforto delle immagini. Quindi non ci si stupisce del classico finale All Hollywood, della fine dei colpevoli, della loro identità e dei colpi di scena che non sono colpi ma sono solo scena. Un film che vorrebbe essere brutto ma ci sono Gere, la Danes (non pervenuta come recitazione e ruolo sulla scena) e Avril Lavigne, eterna pruriginosa lolita no global che fa solo il gesto di slacciarsi i pantaloni (e per questa scena di 1 minuto viene accreditata), ad alzare la media; sporco ma è solo polveroso e la polvere battendo il tacco per terra se ne va per la sua strada; e cattivo ma proprio non ce la fa a spingersi oltre il medio prodotto da successivo e anelato passaggio televisivo ficcato a forza tra spot di pannolini e la nuova imperdibile raccolta a dispense di Santini Votivi, per cui la cattiveria è stereotipata e innocua. Nonostante il finale in pieno sole, non ha il coraggio sfrontato e spiazzante di Seven, per dire. La brutalità del Sud macho rozzo e razzista non sfiora neppure i racconti di Joe Lansdale. O la disillusa violenza degli ultimi Coen. Paragoni, si capisce, ma a forza di combattere il drago, dice anche la voce off di chissà chi, si dovrebbe diventare drago. Lau di draghi se ne dovrebbe intendere ma se tutto intorno tira aria convenzionale non resta che truccare una lucertolina. E guardarla cattivi cattivi.

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