Espandi menu
cerca
Mio fratello è figlio unico

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

Recensioni

L'autore

scapigliato

scapigliato

Iscritto dall'8 dicembre 2002 Vai al suo profilo
  • Seguaci 137
  • Post 124
  • Recensioni 1361
  • Playlist 67
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Mio fratello è figlio unico

di scapigliato
10 stelle

Chi si intende di narrazione sa che il centro dell’azione è il conflitto. Il Conflitto crea l’Azione. Caino e Abele, Jekyll e Hyde, Spider-Man e Venom, e altre celebri coppie oppositive o doppi inquietanti sono il paradigma più efficace per declinare l’eterna lotta tra l’uomo e sé stesso. Tant’è che il “cattivo” nelle narrazioni, si sa, è la proiezione dell’animo nero del protagonista, o la proiezione di paure e credi atavici che materializzati appunto nel “cattivo” permettono all’eroe di sfidarli, combatterli e magari sconfiggerli. Con l’ultimo film di Luchetti siamo da queste parti. Tratto dal romanzo di Antonio Pennacchi, “Il Fasciocomunista”, il film crea ad hoc il personaggio di Manrico (Riccardo Scamarcio), assente nel romanzo, proprio per dare un carattere oppositivo al vero protagonista della storia che è l’inquieto e tormentato Accio, interpretato dal sempre più bravo ed energico Elio Germano, qui nel ruolo di una vita. A Riccardo Scamarcio è affidato l’appeal del bello e tenebroso che grazie alla sua misurata recitazione, dono personale migliorato di film in film, acquista spessore come eroe maledetto, o meglio antieroe per antonomasia. Lo vediamo protestare contro i padroni, ma anche ad usare loro violenza, fino alle frange estremiste di un terrorismo cieco che non guarda in faccia a nessuno. E poi, a completare il dipinto in cui i due protagonisti s’incontrano e si scontrano, c’è lo stralunamento commovente di Angela Finocchiaro, il fanatismo di Luca Zingaretti, la bellezza solare di Diane Fleri e la leggerezza di Anna Bonaiuto. E poi la “Chariot” di Betty Curtis che è l’originale da dove recentemente avevano preso la “I Follow Him” di “Sister Act”, oppure le bellisime canzoni di Nada, interprete sottovalutata.
Ma a colpire è il film stesso. Un film che parla di politica, ma non la fa. Il pensiero del Luchetti politico è facilmente ravvisabile, ma il suo intento registico sa superare questo impasse ideologico e racconta solo la storia di due fratelli sullo sfondo di anni problematici. L’Italia è sempre stato un paese diviso in due, e questa è la sua sconfitta più grande. Perché non dirlo? Perché tacerlo od occultarlo nella trama? Luchetti fa bene a dividere, a scindere, a separare, a polarizzare così nettamente le due realtà oppositive, comunismo e fascismo, che sono l’habitat dei due protagonisti. Forse potrà sembrare banale e accomodante la parabola di Accio, ma è così invece che doveva essere raccontata la sua vita, il suo percorso intimo ed esistenziale, umano e sociale. Si parte con un giovanissimo Accio, interpretato benissimo da Vittorio Emanuele Propizio che non solo è molto simile ad Elio Germano, ma gli è simile nei movimenti, nelle espressioni e nella modulazione vocale. Questi va in seminario, ma ha una crisi di coscienza. É arrabbiato con il mondo, con la famiglia, con il fratello. Viene così buonamente plagiato da un adulto, amico di famiglia, che lo indirizza al Duce e alla violenza sugli inferiori e gli ultimi: i traditori della patria, dell’amico, e dell’idea. Poi, scottatosi sulla sua pelle col fascismo, lo rinnega, ma non condivide del tutto il comunismo, perché agli occhi di Germano, i gesti, le parole e le azioni del fratello Scamarcio sono simili a quelle da lui abbandonate: cambiano solo colore.
Facilmente ingannati dalla giusta popolarità di un grande attore come Scamarcio, non capiamo subito che il vero protagonista è Accio, ovvero Elio Germano. Ma è proprio lui, il Tuco dei nostri giorni, ad incarnare lo spirito rivoluzionario del film. Germano è arrabbiato, è inquieto, è irrisolto. Non sa, non capisce, non distingue. É arrabbiato e decide di farlo sapere a tutti. Prima coi fascisti e poi, finalmente, contro i fascisti e tutti i fascismi. La vera rivoluzione è quella del suo personaggio, e non quella fatta a suon di piazzate e di atti terroristici. La sua è la vera rivoluzione, il vero amore del proprio paese, e non quello nazionalista di quei poveretti che inneggiano ancora al Duce e pestano chiunque non la pensa come loro. La camera a mano è la soluzione grammaticale più giusta per raccontare questa inquietudine, questa arrabbiatura, questi passi precari sulla corda della vita che sotto ha solo il vuoto.
Riccardo Scamarcio è il bello e tenebroso, misurato e jamesdeaniano che tanto mancava al nostro cinema di soli trentenni in crisi o cinepanettonari stanchi e stracotti. Elio Germano invece è il più capace, il miglior attore della nuova generazione. Burbero, istrionico, solare, energico, è lui il più genuino, il più istintivo, il più intuitivo, perché l’interpretazione è un’intuizione, checche se ne dica. Germano sa dove affondare lo sguardo, dove moderare il gesto, dove farlo andare. Complice una regia così aderente ai suoi attori da farli diventare loro i veri protagonisti del film, e non la ricostruzione scenografica e la memorabilia facile dei film da mercatino delle pulci. E va detto che la camera a mano sarà stata scelta anche per questo, come in “Romanzo Criminale”. Così, i due più grandi attori italiani di oggi, che io seguo fin dai loro esordi già sapendo che erano i migliori, tornano finalmente a duettare tra loro come anni fa in “Ora o Mai Più”, o più recentemente con appunto “Romanzo Criminale” che però non li lascia interagire davvero. Loro sono il passpartout per comprendere un film che è tra i migliori fatti in casa, la nostra, in molti anni di predominio autoriale alla Moretti o alla Bellocchio, o di predominio di cassetta con i film di Natale. Un film, “Mio Fratello è Figlio Unico”, che ci ripete una volta di più, e ne abbiamo sempre bisogno, che il nostro paese ha ferite ancora aperte, e che ancora oggi ci sono giovani che mettono mano alle armi per farsi rispettare, per difendere un’idea. E che cos’è poi questa idea tanto fantasticata dal nostalgico fascista Zingaretti? “L’Idea è l’idea”, risponde l’attore. Certo: è il vuoto, è il nulla. Solo violenza e squadrismo. La libertà dov’é? Quella vera sia chiaro, non quella nata già morta tra i paletti delle leggi morali e dello Stato. Ecco cosa attira Accio all’inizio, il potere e la forza della supremazia sull’altro, da cui poi scapperà disilluso e sempre di più un ultimo. Perché Accio è un rifiutato. Accio è un escluso. É escluso dalla famiglia, dalla Storia e dalle ideologie. Crede e cerca di trovarne una a cui appartenere, di famiglia, di Storia e di ideologia, ma non ci riesce. É uno dei migliori ribelli del grande schermo, ed io azzarderei il paragone, sia contenutistico che professionale, con il James Dean di “Gioventù Bruciata”, il cui titolo originale era appunto “Rebel Without a Couse”, ribelle senza causa. Accio è il dissociato tarchettiano, di eredità scapigliata. Tra l’altro è proprio stato un ribelle di quell’epoca scapigliata in “N - Io e Napoleone”, ossessionato dalla voglia di uccidere il suo Napoleone-Berlusconi.
Quindi, un film che non calca la mano sulla politica, ma evidenzia e continua ad urlare il gran male che il fascismo e il terrorismo rosso hanno fatto. Mentre Luchetti è più indulgente verso la sinistra, che nel proprio DNA, va detto, non ha i geni della violenza e dello squadrismo di destra, il suo Accio è un puro ribelle, fuori dal tempo, controcorrente e dissociato. Un personaggio straordinariamente letterario, di una bellezza letteraria disarmante, a cui è lasciata la vera rivoluzione. Sì, perché la vera rivoluzione non è quella della lotta armata. Non è quella dei colori e dei credo politici o religiosi. La vera rivoluzione è riportare l’uomo al centro del discorso. Riportarlo all’attenzione dell’intero sistema. La centralità dell’uomo è il suo cuore, fatto di perdono e tolleranza. Aspettate di vedere il finale del film, con il gesto di grande classe del nostro caro Accio, o se volete del nostro caro Elio Germano. Guardate il suo gesto. Mentre i neri spaccano teste a tutto andare, vigliacchi e repressi come sono, e mentre i rossi si oppongono al Male con il Male, lui, il nostro vero ribelle sceglie la via silenziosa del gesto solitario. Rompe i vetri, prende le chiavi e fa occupare le case a chi non ne ha più una. Perché? Perché al centro del discorso ci ha messo l’uomo, e non l’ideologia o il suo credo: solo l’uomo. Questa è la vera rivoluzione.
Una nota finale: se Elio Germano non rivece nessun riconoscimento per questo ruolo, allora è vero che il cinema italiano è davvero e irrimediabilmente malato.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati