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Miami Vice

Regia di Michael Mann vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Miami Vice

di lussemburgo
8 stelle

Con questo film Michael Mann si riappropria della sua famosa serie omonima degli anni Ottanta, riproponendo le indagini sotto copertura di Crockett e Tubbs. Ma l’utilizzo del materiale preesistente porta il regista ad un tradimento apparente degli aspetti più appariscenti del serial e ad un adattamento profondo di quello stesso spunto iniziale. Il film si svolge ai giorni nostri, in una Miami prevalentemente notturna, scura e cupa, ben lontana dai parametri solari e colorati di un telefilm che si tinge di noir nel passaggio al grande schermo. Ma gli elementi fondamentali sono tutti presenti, dai personaggi all’ambientazione, dalle tipologie caratteriali alla riconoscibilità degli stessi cliché della serie (la Ferrari, gli abiti elegantemente informali, il sottobosco malavitoso, lo stesso utilizzo di un tappeto sonoro di canzoni e il rimando reiterato, sino alla sigla finale, a In the air tonight di Phil Collins). Tutto però è stato aggiornato, dai modelli delle macchine agli attori, sino alla stessa canzone sui titoli di coda. Il film riprende alla dalla serie motivi e ingredienti ma li miscela e riadatta diversamente, permettendo una riconosciblità esibita, ma insieme opponendo una distanza che garantisce libertà d’iniziativa. Il film è un adeguamento autorale del materiale di partenza, una costruzione operistica rispetto alla semplice ripresa e variazione tematica dei diversi brani del serial.
Miami Vice parte in medias res, si apre durante un’indagine in corso, in un omaggio al progenitore televisivo che permette di sorvolare sulla presentazione dei personaggi, sulle dinamiche caratteriali e la solida fiducia reciproca dandoli per acquisiti. L’azione prende subito avvio senza tempi morti con un McGuffin narrativo, un’introduzione rapida all’ambiente che viene presto abbandonata. Quell’indagine non verrà portata a termine. Così come quella su un gruppo di neonazisti si complica con l’entrata in scena di un boss sudamericano. La missione cambia strada facendo, il caso si amplia. Dal mondo dei narcotrafficanti, che costituivano l’asse portante della serie tv, il film si sposta verso una mafia sovranazionale globalizzata e tentacolare, i cui gangli operativi sono diversificati per specificità geo-politiche, mentre il centro direzionale è ubiquo, inafferrabile, strettamente imparentato con l’alta finanza imprenditoriale.
Anche la stessa sceneggiatura slitta progressivamente, non solo nel salto di qualità delle indagini, ma anche nel peso dei suoi elementi interni, lasciando largo spazio alle digressioni sentimentali dei protagonisti, con una perfetta specularità tra i due ed un comune denominatore: il tradimento, con i corollari di dovere e rischio. Non solo la squadra di Miami lavora sotto copertura, ma Crockett è sentimentalmente coinvolto con una luogotenente del superpadrino, l’FBI è infiltrato da una talpa, criminali cercano di sovrastare i rivali, confidenti della polizia che vengono denunciati. Ma anche lo stesso film, che tradisce la serie pur nel doveroso omaggio della ripresa.
Asse portante di Miami vice, il tradimento è motivo costante e motore drammatico dell’intera narrazione, che, fondamentalmente, si rivela essere un doppio melò, le storie di amori contrastati dai rispettivi doveri, di persone amate (colleghi o antagonisti) messe dolorosamente in pericolo, nel senso che sfugge impalpabile, nel tempo che disperatamente fugge e va trattenuto, il baluginare illusorio di un’ipotesi di vita alternativa, una via di scampo che la realtà sempre contraddice. Nel gioco melodrammatico del tradimento e del dovere si inseriscono elementi di imponderabilità, di caos imprevedibile che rompe la meccanica efficienza delle strutture gerarchiche avversarie e distorce la linearità del racconto, con il suo ritmo d’azione scandito da scene per lo più filmate ad altezza d’uomo. Acquista invece statica importanza la natura, l’imponente bellezza delle cascate o dei tramonti di cui il regista esalta la maestosità panoramica con inquadrature dall’alto, mentre a livello personale il film si concentra sull’irrazionalità dell’attrazione sessuale che prevale su ogni prudenza, accentuandone la sensualità con dettagli e primissimi piani. Se in Collateral si opponevano gli atteggiamenti “musicali” dei due protagonisti (il jazz improvvisato di Cruise, il funky prevedibile di Foxx) sul fondale imperturbabile di Los Angeles in una sinfonia urbana notturna, Miami è invece qui solo uno sfondo temporaneo, una semplice voce al capitolo incassi ed entrate della multinazionale del crimine, un passaggio obbligato di un più grande commercio di uomini, mezzi e denari che lambisce la Florida e si dissemina ovunque.
Tutto e simile ma profondamente diverso tra serie e film, il ritratto del mondo è differente perché il mondo, criminale o meno, è cambiato, e la legge rasenta l’impotenza nel tentare di fermarlo o anche soltanto di comprenderlo completamente. Il “vizio” di Miami non è più circoscritto e accessibile come in tv, si è ampliato in una metastasi planetaria. La narrazione stessa slitta, si espande, si complica, trasloca a Cuba o in Honduras, gli amori approdano al dolore e, nell’indagine, se il quadro complessivo si chiarisce col crescere dell’importanza dell’inchiesta, i risultati latitano, la missione si sfalda, infine tutto sfugge e si risolve in nulla, se non in sofferenza. Giù anche la serie aveva un senso di mesta impotenza che si addensava in finali tragici, conclusivi perché disperati, spesso improvvisamente violenti.
Rimane la violenza, dei sentimenti e della natura, del film stesso che la espone senza accondiscendenza ma con chirurgica crudezza, con una valenza realistica che ne fa la controparte visiva delle emozioni coinvolte, come nel fragore della sparatoria finale. Perché la cifra stilistica di Mann è la secchezza, l’efficacia senza ridondanza, l’essenzialità di un montaggio funzionale nell’azione e la libertà di prendersi altrove il tempo della digressione per sfumare personaggi e situazioni, scalfiggendo in profondità la superficie apparente e facendo risuonare il racconto di significati ulteriori in cui la narrazione fa emergere la sua intimità d’autore. Come nella fotografia che tende ad un’astrazione possibile, dai parametrici realistici nel gioco dei colori e nella dinamica tra luci e ombre, con tutte le sfumature di un nero che rischia sempre di divorare il contesto. Senza metafisica o volontà poetica, ma con rara capacità evocativa.

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