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Morvern Callar

Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film

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La recensione su Morvern Callar

di OGM
6 stelle

Il James Gillespie di Ratcatcher è tornato. Non è più un ragazzino, è cresciuto e ormai è un uomo. Però è morto. Si è suicidato nell’appartamento in cui vive con la sua ragazza, tale Morvern Callar. Che decide di tenere nascosto l’accaduto e di impossessarsi del suo romanzo: lo manderà all’editore con il proprio nome. Questo secondo lungometraggio di Lynne Ramsay, scritto in collaborazione con Liana Dognini ed ispirato all’omonimo romanzo di Alan Warmer, è un film inquieto, che muove i  primi passi con la rarefatta lentezza di un thriller solitario e poi si sviluppa nella direzione del road movie. Il silenzio del terribile segreto cede allora il posto alle sfrenatezze urlanti di un’avventura turistica sulla costa spagnola, tra selvagge ragazzate e folcloristici furori. Un caleidoscopio, a dire il vero, un po’ arrancante, che ruota intorno alla figura della giovane protagonista, una ventenne britannica che l’obiettivo ritrae con ossessività, e pure rimane un po’ sbiadita, costantemente diluita nell’incertezza sul da farsi. È come se, rincasando, Morvern Callar abbia un giorno incontrato la morte, e si sia messa quindi alla disperata ricerca della vita, senza però riuscire a trovarla. La sua storia ondeggia, lei stessa si dimostra refrattaria ai rapporti stabili e duraturi, ma più per immaturità che per spirito di indipendenza. In questo film, la libertà è malata, affetta dalla puerile ebbrezza di un carpe diem indiscriminato, alla quale si abbandona senza inventiva. Lynne Ramsay lascia che l’incoerenza e l’improvvisazione parlino da sé, ed in qualche senso, riempiano lo schermo facendosi linguaggio letterario. Questa poesia in versi sciolti è la pennellata di un’esistenza inventata istante per istante, che qui dà vita ad un racconto un po’ assorto, come in attesa che emerga, dal fondo, la psicologia che esso chiaramente sottende, sia pur da distaccato osservatore. Tuttavia nulla si rivela, nemmeno l’inganno che, alla fine, si sottrae alla verità imboccando la via della fuga. Non convince questa rimozione così convenzionale, che si traduce in un’insaziabile fame di emozioni passeggere e prive di sbocco, e, per di più, si tuffa in un esotismo spicciolo e in un facile edonismo prêt-à-porter. Colpisce, però, nel confronto con il successivo ... E ora parliamo di Kevin, la presenza dello stesso stile narrativo: una sorta di prosa rap della singolarità umana, in cui l’individuo che è portatore, nei recessi dell’intimo, di una sinistra diversità nascosta, sfoga, a suo modo, la propria ostilità nei confronti di un mondo che vorrebbe dominare. Morvern, come Kevin, non vogliono essere compresi, e tantomeno giudicati, e per questo motivo fanno di tutto per essere, in ogni situazione, coloro che dirigono le danze. I loro progetti sono fatti di tante piccole iniziative estemporanee, miranti a distruggere il preesistente, a contraddire il prestabilito, in modo da cominciare sempre ex novo e non dovere scrivere mai la parola fine, se non all’ultimo momento, quando si tratta davvero di azzerare ogni cosa. Morvern Callar  contiene un’idea forte, avvolta in un misto di durezza underground e sensibilità femminile, e parzialmente attenuata da un eccessivo amore per la digressione estetica.  Il ritratto della protagonista è il filo conduttore che lega le tante sfaccettature di una vicenda bizzarra e vagamente psichedelica, ansiosa di mostrare i propri chiaroscuri e di mettere in vetrina, tra il luccichio delle immagini ad effetto, quello che di Morvern Callar è solo l’apparire.

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