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Solo contro tutti

Regia di Gaspar Noé vedi scheda film

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La recensione su Solo contro tutti

di EightAndHalf
7 stelle

Coscienza che si fa sguardo, l'essenzialità dell'osceno.
La realtà è dura a morire. Non si nasconde, si rivela, mostra costantemente la sua vera natura di mostro di sofferenza. E' una realtà che si impone crudele e senza mezzi termini, e da essa esausti ci difendiamo tramite l'imprescindibile costanza dei nostri pensieri. Raffazzonati o confusi che siano, sono sempre i pensieri che mobilitano la realtà, che la scuotono da quella sua cristallizzazione acida e asettica che percuote i nostri occhi (e per via diretta le nostre coscienze) e non lascia speranza per niente in ciò che ormai è impossibile che ci sia al di là della realtà stessa. Non abbiamo speranza di vedere, perché vedremmo il vuoto. L'aridità dell'esistenza percorre tutto il film e tutto il cinema di Gaspar Noé come un coltello affilato sprofondato nel nostro immaginario, e fa sgorgare a fiotti i piccoli rivoli di speranza che ci sono rimasti per risputarci fuori nell'abisso dell'oggetto, di quella furiosa reale messa in scena. Ed essa scorre tutta nelle immagini immobili di Seul contre tous non nascondendo nulla perché nulla evoca (né può evocare), ma tutto mostrando senza dimostrare. L'immediatezza e l'immanenza del sangue, del sesso e della violenza sono la fornace che produce cinismo e caustica crudeltà, e che provocano nel protagonista quella scissione disperata e inevitabile di chi è fin troppo invischiato nella realtà e avverte che l'unica cosa che può esserci oltre è proprio all'interno della realtà stessa, il suo pensiero. Se la realtà non evoca nulla, ed è solo carne, ossa e grasso (esattamente come un corpo umano, organismo straziato dalla propria concretezza), l'immagine difficilmente può parlare, può trasmettere, forse perché non c'è nulla da trasmettere, o forse perché la realtà castiga le nostre coscienze con la sua durezza e la sua totale distanza dalla compassione. E' il pensiero che regola l'ethos dell'uomo, è la forza cogitativa (non razionale, ma fluente come un fiume in piena) a rendere la realtà qualcosa da constatare, osservare, per infine soffrire. E' il pensiero che ci chiede disperato di rifuggire il putrido bianco/giallo/grigio delle camere delle nostre case, o delle nostre strade, e che ci ricorda ciò che abbiamo creato, ciò che abbiamo distrutto e tutto quello che sta in mezzo. Tentare di osservare davvero il proprio passato per cambiarlo, abolirlo, azzerarlo. Rivedere i propri presupposti e cercare di riformarli.
E' così che la pellicola di Gaspar Noé inizia, con l'inizio della coscienza del suo protagonista, che accumula e accumula riflessioni su riflessioni (talvolta grossolane, talvolta lampanti) per vedere cosa è successo, cosa sta succedendo ed effettivamente cosa si potrà cambiare. Non c'è reinterpretazione, ma violenta e ribelle accettazione. L'uomo di Noé è un essere sempre in movimento, sia fisico che mentale, si proietta velocemente da un contesto all'altro tentando di creare un possibile ponte fra ciò che pensa e ciò che realizza. La morale. Ed ecco che, paradossalmente, sorge la chiave morale dell'intero film di Noé, o quantomeno la sua chiave di lettura. In una Weltanschauung in cui di "visione" poco è rimasto, e la mdp può solo scorgere la linearità banale e barbara della miseria esistenziale del creato, è la morale quella forza con cui l'uomo sa elaborare un concetto e può provare ad applicarlo, a renderlo concreto, perché è necessario un attaccamento forte alla vita per avere l'intenzione di cambiarla. Il percorso di quest'uomo, rimasto solo con(tro) la sua coscienza (poiché, come si è detto, scisso fra astrazione cogitativa e realtà carnale), è poco stratificato ma straordinariamente sviscerato da un Noé che al suo primo lungometraggio sembra voler dire tantissimo (come molti esordienti), ma che rischia di dimenticarsi di ciò che si guarda per concentrarsi su ciò che si sente. Le inquadrature, che pure si lanciano in bizzarri stacchi di montaggio violenti e ronzanti come nell'occhio di un insetto volante, non incarnano mai l'occhio della coscienza del protagonista, ma si configurano come occhi di una realtà la cui crudezza rischia di essere data come assioma. In ogni caso, c'è un'immensa distanza fra lo spettatore e il protagonista, una distanza che le continue voci interiori, combattive e sovente brutali, non colmano, e che a livello figurale si traducono in una bassissima fiducia nei confronti dell'immagine e in una grande fiducia nei confronti della sceneggiatura. E' tutto straordinariamente coerente, perché se del mondo c'è poco da vedere (se non colori vuoti, ossa, carne e grasso), è evidente che l'unica cosa che rimane è il joyciano stream of consciousness; eppure è sicuro che è il protagonista a stare osservando, ed è il protagonista che, seppur adeso fortemente alla realtà, guarda con i suoi occhi. Il resoconto iniziale di tutto il suo passato non si avverte in forma di gravosità e pesantezza nella sua vita comportamentale, perché è tutto espresso, brutalmente mostrato, immanentemente esplicitato. E questo comporta, come si è detto, pochissima fiducia nei confronti dell'immagine. Cosa rimane? Una lunga serie di godardistiche didascalie che pure riempiono lo schermo ma che dànno chiavi di lettura piuttosto che alternative riflessioni (come avveniva in La chinoise o anche in Sympathy for the Devil)? Uno scontro al limite dell'apocalittico fra la morale comune (e borghese), la legge morale e la morale personale del protagonista (con annesso concetto di giustizia e di arma da fuoco), che saprà amare solo se romperà di netto il compromesso che normalmente le relazioni umane realizzano con quella stessa legge morale? Una ricerca ambiziosa e semplicemente vitale di libertà, con il forte rischio che essa si concluda nell'autoannichilimento? Rimane tanto nel film di Noé, ma è tutto in quel flusso di pensiero, in quella conseguenzialità irrazionale che esteticamente non trova risposta. Tanto che c'è bisogno di una didascalia per esprimere una chiave di lettura: vivere è un atto egoistico, sopravvivere è una legge di natura.
Finché: ATTENZIONE, SI E' NELLA LIBERTA' DI LASCIARE LA SALA ENTRO 30, 29, 28....SECONDI.

E le immagini tornano ad avere un senso, oggetto e coscienza si ricompongono, e la visione si conclude nell'apice dell'ossessione (abbandonando una parte centrale in cui si rischia di abituarsi a tutto) e nella riscoperta di una dignità, umana e filmica. Dopo un'ora ricca, ricchissima di frustrazione. 
Considerare alcuni difetti come contesto su cui certo cinema si sviluppa è un corretto atto, appunto, di contestualizzazione? Forse sì, forse per certo cinema moderno, forse il cinema estremo e altalenante di Gaspar Noé.

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