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Il diario di un curato di campagna

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su Il diario di un curato di campagna

di Serum
10 stelle

 

Ambricourt è un paesino dell'estremo nord della Francia, sperduto e rurale, con pochissimi abitanti che si conoscono tutti ed ancora legato ad una cultura del decoro tardo ottocentesca, ma nelle cui tessiture antropologiche è possibile subodorare il germe della modernità. Ad avere a che fare con un simile contesto si trova il nuovo parroco (Claude Laydu, che sembra nato per questo ruolo), un giovane onesto, sinceramente intenzionato a svolgere al meglio il proprio lavoro, con poche energie ma una grande fede che lo spinge a farsi forza nonostante l'inizio non sia dei migliori (la prima persona che incontra lo accusa di essere avido e non è in grado di riprendere moralmente il gestore di un locale nel quale è concessa un'eccessiva libertà nei costumi). Ma tutta la sua amministrazione spirituale vira verso un disastro che lo fa sprofondare nella solitudine più lacerante: ai bambini che vanno a catechismo non interessano i suoi sobri ma bonari insegnamenti (sono lì solo per obbligo e si divertono a prenderlo malignamente in giro), l'istitutrice apparentemente così devota frequenta la chiesa solo perché è l'amante di un uomo sposato ed il ricco signore del luogo lo tratta quasi come un mendicante dalle idee un po' strampalate ("Non voglio che un prete s'impicci in faccende di famiglia"). E già a questo punto la sua voglia di pregare (e quindi di stare in contatto con quel Dio di cui dovrebbe essere portavoce) inizia a vacillare, diviene un obbligo a cui sottoporsi per sfuggire all'idea che il proprio operato non abbia alcun senso ("Il desiderio di pregare è già una preghiera e Dio non chiede di più. Ma io non dovevo assolvere un dovere. Pregare m'era in quel momento indispensabile. Come l'aria ai polmoni. Come l'ossigeno al sangue. Dietro di me non c'è più la vita quotidiana familiare alla quale si sfugge di slancio: dietro di me non c'è nulla e davanti un muro. Un muro nero." e ancora "Dio se n'è andato da me. Di questo sono sicuro."). Ma la sua discesa continua, senza conoscere battute d'arresto, grazie alla morte per probabile suicidio dello stimato medico ("Era piombo fuso su una piaga aperta"), alla ragazza che non vuole confessarsi dopo aver manifestato desiderio omicida, che per tutta la durata della vicenda si divertirà a scandalizzarlo definendolo anche "diabolico" ("Se vi dicessi quello che penso della vita... Io desidero tutto. Voglio conoscere tutto. E se la vita mi delude tanto peggio: farò il male per il male"), al giovane legionario che con naturalezza gli racconta degli atteggiamenti blasfemi dei propri commilitoni alla morte dei soldati alleati, all'ex collega di seminario spretato per una ragazza (perfettamente sereno e che anzi definisce il suo cambio di rotta un'evoluzione intellettuale), al vecchio parroco che lo deride fisicamente mostrandosi come cinico uomo di mondo (di fronte al quale il giovane curato si dispera, non avvertendo più la Chiesa come un'εκκλησια da cui ricevere sostegno) e all'umiliazione che sembra infliggergli la contessa ("Attenta a chi? A voi forse?""Vorreste insinuare dei dubbi. Non ci riuscirete, ho troppo buon senso."), la quale reagisce ai suoi impotenti tentativi di intimidazione mettendolo all'angolo. Tuttavia con quest'ultima, per la prima (ed unica) volta sembra riuscire a fare breccia nel suo scudo, a toccarla nel profondo instaurando un dialogo violento ma vero, commosso per entrambi, nel quale per un istante (quello in cui il dolore per la morte del figlio viene sublimato nell'idea di poterlo incontrare di nuovo in un ipotetico aldilà, rendendo possibile gettare tra le fiamme l'unico ricordo che rimaneva di lui) ha la sensazione che il senso di tutto sia tornato (con la doppia preghiera, che ricorda la lettura del vangelo da parte di Raskolnikov e Sof'ja in Delitto e castigo). Ma è solo un'illusione che rende ancora più dolorosa la caduta nel baratro: la donna morirà poco dopo facendo crescere ulteriormente l'odio che la comunità prova nei confronti del prete, che assume connotati quasi grotteschi quando iniziano a dargli dell'ubriacone, dello stupido e del debole, arrivando addirittura a delegittimare il suo operato sul piano teologico e della gestione sociale della parrocchia, senza che lui riesca a reagire, a mettere in mostra la propria volontà di fare del bene nel nome di un'idea ("Ma infine che ho fatto di male? Che mi si rimprovera?" al che viene risposto: "Essere quello che siete. Non ci sono rimedi a questo. La gente non odia la vostra semplicità: se ne difende. È una specie di fuoco che brucia."). Perché quello che il parroco non riesce a capire (se non inconsapevolmente) è che quella comunità non ha davvero bisogno di lui e della sua logora parrocchia: per loro è un fatto puramente folkloristico, un residuato della superstizione contadina per le classi meno abbienti ed una superficiale testimonianza di decoro sociale per i nobili signori e gli aspiranti borghesi. Anche se la fede in Dio è tutta la sua vita, anche se sente di dover "rispondere di ogni anima" di quello sgangherato villaggio, al resto del mondo non frega un accidente e tutto continuerebbe ad andare avanti come se niente fosse anche se lui maledicesse il creatore, bruciasse la Bibbia e sputasse sulla croce.

Tutto questo straordinario, cristallino ritratto è costruito in parallelo al disfacimento fisico del curato, la cui malattia cresce all'aumentare della sua dolorosa disillusione, ed è lì pronta ad assestargli un filosofico colpo di grazia: testimonia l'imparzialità del caos che domina l'esistenza, di fronte al quale chiunque è impotente (anche se appartiene alla razza di quelli che "resistono ai colpi"). La sua agonia è mostrata in tutta la sua atrocità: l'anoressia, l'astenia, l'ematemesi, la confusione mentale, gli svenimenti. E nel momento finale, quando il solo pensiero di pregare gli causa il voltastomaco e la sua triste vita sta per finire, dice "Che importa: tutto è grazia", unica frase della voce narrante che non sentiamo pronunciare da lui in persona, rendendo dunque impossibile (volutamente) coglierne le sfumature. Ma il contesto psicologico lo conosciamo: è quello di un giovane distrutto, i cui pilastri esistenziali sono venuti meno a causa della disarmante banalità del quotidiano, riducendolo ai minimi termini e spingendolo in una disperazione senza via di uscita, mentre la malattia lo divora dall'interno bilanciando con un'allegoria biologica la sua disfatta psichica e filosofica.

Dall'omonimo romanzo di Bernanos, Bresson estrapola la più grandiosa analisi dell'età del nichilismo della storia del cinema, pietra fondativa per chiunque abbia voluto trattare il tema dell'uomo immerso in un mondo in cui il peso specifico dell'idea del Dio abramatico sia venuta meno (dal Bergman della Trilogia del silenzio di Dio a Scorsese, dal Bunuel del periodo francese a tutta la filmografia di Paul Schrader), arrivando una volta per tutte alla definizione del suo stile, in cui l'austerità, l'asettica eleganza e la gravità dei gesti e delle situazioni costituiscono le basi di una perfezione formale impareggiabile. Un'opera senza tempo e di inesauribile fecondità.

 

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