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La fiera delle vanità

Regia di Mira Nair vedi scheda film

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La recensione su La fiera delle vanità

di giancarlo visitilli
4 stelle

Tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray, Vanity Fair, della regista indiana Mira Nair (Leone d’Oro nel 2001 con Monsoon Wedding), si presenta come un grandioso affresco avente come protagonista Rebecca Sharp che, tra miserie e sfarzo, s’incammina sul sentiero ripido della sua ambizione fino a trasformarsi in una folle corsa verso l’accettazione e l’integrazione.
Infatti, Rebecca, figlia di un pittore e di una cantante d’opera, resta orfana da piccolissima e, spinta dal desiderio di una vita più agiata e lussuosa, decide di scalare l’alta società con ogni mezzo. La troviamo impiegata prima come governante nelle famiglie più in vista della Londra otrtocentesca, riuscendo ad entrare facilmente nelle grazie delle fanciulle a cui deve badare, ben presto la ritroviamo con un marito benestante e per di più incinta. Napoleone invade l’Europa, gli equilibri cambiano e Rebecca, dopo varie vicissitudini, trova rifugio nella protezione del marchese di Steyne che la asseconda nei suoi capricci e le permette di essere finalmente accettata dagli ambienti nobili. Il prezzo, però, si rivela troppo alto. Seppure dotata di un’intelligenza straordinaria, Rebecca, cambia parallelamente al mutare degli eventi che la circondano: paziente e devota da giovane, più cinica, smaliziata e arrivista nel momento in cui deve mettere in gioco i suoi affetti più cari, per un fine da lei perseguito con costanza, l’ingresso nella buona società.
La camaleontica Reese Whiterspoon è molto brava ad equilibrare i toni del proprio ruolo e dei cambiamenti che esso subisce. Anzi, l’eccessiva preminenza del suo ‘sfoggio attoriale’, fa sfigurare gli altri attori, che fungono come spalla, senza mai emergere.
Semmai l’inevitabile dubbio è nei confronti della regista indiana, che anche attraverso questo film, mostra di avere una sorta di rimpianto nei confronti del colonialismo inglese, che per anni ha torturato, massacrato e fatto scomparire la vitalità di un popolo, quello indiano. Infatti, che cosa sarebbe il sogno che insegue la protagonista, se non quello di ogni donna che fa del conformismo la propria battaglia? Rebecca non è altro che la solita eroina hollywoodiana, di fattura inglese, che vanifica e fa dimenticare ‘volentieri’ le tante belle donne indiane, che inseguono un ben altro sogno, giorno per giorno: la sopravvivenza.
Sontuoso ed elegante, con un impianto classico, anche per quanto concerne la sua eccessiva lunghezza (110’ minuti), Vanity Fair potrebbe senz’altro considerarsi un omaggio ai film degli anni Cinquanta e Sessanta, chiaramente non volutamente indiani, che in genere mostrano tutt’altro sfarzo e bellezza (di gran lunga migliori). Qui c’è l’India, ma come un mero ornamento folckloristico di cui siamo soliti sentire parlare o vedere nei documentari per i turisti (quelli ricchi).
Lo stile di Mira Nair è eccessivamente imbarocchito dalle inquadrature, dall’eccessiva pedanteria dei dialoghi, insomma da un’estetica che si prende cura del make-up, delle acconciature e dei cappelli, tralasciando l’essenziale.
Alla fine anche al miscredente riecheggiano quelle sapienziali parole del libro della Sapienza, e non di Tacheray (come i critici delle grandi testate hanno scritto): “tutto è vanità, solo vanità. Vivete con gioia e semplicità…”, tra l’altro musicate da Angelo Branduardi, in occasione del film “State buoni, se potete”.
Giancarlo Visitilli

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