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Dieci

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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La recensione su Dieci

di EightAndHalf
7 stelle

Dieci frammenti di una cronologia del caso nella turbolenta e disillusa Iran dell'oggi. Kiarostami abbandona definitivamente il realismo magico di alcune sue opere precedenti (Dov'è la casa del mio amico?) per dare spazio alla realtà nella sua concezione più claustrofobica: due sgardi provenienti dal cruscotto di un auto sui due passeggeri dei sedili anteriori. Uno rimane sempre lo stesso, l'altro cambia tante volte quanti sono gli episodi di questo interessante ma intenso film. Il cinema è chiuso dentro un mezzo in movimento, che si aggira in un fuori (quasi) mai esplorato, né osservato. Eppure il fuori insiste a penetrare nel più piccolo anfratto della realtà, nei dialoghi e nei volti dei personaggi che entrano ed escono dalla macchina, riflessi precisi delle insoddisfazioni, illusioni e prepotenze che si agitano all'esterno. Il paesaggio che si può intravedere dai finestrini non cambia, una routine urbana desolante e ridondante, quasi come se anche dal punto di vista urbanistico non cambiasse mai nulla. Perché quello che racconta Kiarostami è l'immobilità della cultura, in particolare di quella medio-orientale, di cui lui è l'esponente più importante perché più delicato, capace di osservarla, criticarla ma senza tradirla, perseguirla nei suoi aspetti più importanti (simbolismi, semplicità, umiltà) e rimproverarla in quelli più vergognosi (maschilismo, mercificazione dei rapporti umani, fanatismo). Il racconto che realizza in Dieci è consapevole di quanto questo discorso sull'arretratezza del Medio Oriente sia ormai trito e ritrito, e comprende che l'unica maniera per ribadirlo ancora è trovare forme espressive nuove, ma non estetizzanti. Ci troviamo qui di fronte al grado zero dell'arte e della finzione cinematografica, bloccati a osservare un romanzesco spaventosamente reale.

Ogni dialogo è denso di rimandi e tematiche che sbucano dal quotidiano, tanto che soltanto raramente si avverte quel minimo di programmaticità nella disposizione degli episodi e nell'organizzazione dei sottotesti. Nei quattro episodi in cui la protagonista, donna emancipata, ammirevole, ma stranamente "chiusa" nella sua emancipazione, porta in macchina il figlio, un piccolo adulto che dimostra tutta la (im)maturità degli adulti iraniani, nel maschilismo, nell'arroganza e nell'incoerenza dei suoi rimproveri, Kiarostami vuole evitare di generalizzare, e la "chiusura" dell'emancipazione della donna comincia a diventare (forse) la motivazione profonda dell'insofferenza del figlio, benché egli viva comunque in una società "chiusa" di per sé. In questa dimensione problematica, in cui Kiarostami si sforza di non prendere parti, diventa interessante l'attrazione impossibile e inverosimile verso un irrazionale religioso che non reca soddisfazioni immediate (quelle di cui i personaggi sembrano sentire il bisogno), il nichilismo di chi riduce i rapporti umani alla legge della domanda e dell'offerta (la prostituta, di cui non si vede il volto, e di fronte alla sfrontatezza della quale la stessa protagonista emancipata si sente spiazzata), la straordinaria visione di amore possibile anche "tra le rovine" (gli episodi della donna che viene lasciata dal fidanzato, di fronte alla quale sofferenza la protagonista dimostra i suoi limiti di comprensione e di empatia). 

Kiarostami realizza un racconto polifonico e temperato, che assomiglia più al Fharadi di Una separazione che al simbolismo del Panahi del Cerchio, ma che, a prescindere da qualsiasi paragone, nonostante un'apparente mancanza di stile, si distingue per il suo sguardo che, benché mostri un realismo privo di simboli evidenti, è ancora in grado di commuoversi ma di non piangersi (ancora) addosso. 

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