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28 giorni

Regia di Betty Thomas vedi scheda film

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La recensione su 28 giorni

di degoffro
4 stelle

Forse le eroine delle commedie romantiche americane ad un certo punto della loro carriera sentono forte la necessità di interpretare un'alcolista. Dopo l'esperienza non proprio felice di Meg Ryan nel dimenticabile "Amarsi" del messicano Luis Mandoki, ora è il turno di Sandra Bullock, alle prese con un film che definire inutile, ipocrita, grossolano e trascurabile è poco. Sceneggiato da Susannah Grant, che pure nel suo curriculum ha "Erin Brockovich" e diretto dalla mediocre Betty Thomas "28 giorni" è un film noioso e fiacco, svogliato e deludente, una sorta di riciclo piatto e fastidioso di "Ragazze interrotte" (che già non era un granché) e che ha per di più la presunzione di voler essere un realistico e credibile ritratto della condizione di chi si trova a trascorrere in una clinica di riabilitazione un periodo di ricovero per recuperare dagli abusi di alool e droghe. Non pretendevamo un altro "My name is Joe", e men che meno l'immenso "Giorni perduti" di Wilder, (in fondo questa è pur sempre una commedia), ma per lo meno maggior rispetto per lo spettatore. La Bullock (raramente così irritante e sopra le righe, specie nella prima parte quando ricicla tutti i più abusati cliché necessari per interpretare un personaggio alcolizzato) è Gwen Cummings, una scrittrice di successo che ama il divertimento oltre ogni limite. La sua vita può sembrare affascinante piena com'è di feste e locali, svegliandosi la maggior parte delle volte con i postumi di una sbornia. Suo compagno di avventure in questo vagare per i locali di New York è il fidanzato Jasper vero cultore della vita sfrenata. Nel suo consueto stato di ebbrezza e di alterazione, Gwen si presenta, una mattina, al matrimonio della sorella Lily, ragazza dal carattere opposto. Ci vuole poco perché Gwen perda il controllo e faccia danni che rovinano la cerimonia. Il giudice la condanna allora a passare 28 giorni in una clinica di riabilitazione. Qui all'inizio Gwen si mostra del tutto ribelle ed insofferente verso il luogo e gli altri degenti, non lavora, fuma, cerca di procurarsi qualche medicina forte. Quindi prova ad evadere, si rompe una gamba, è ripresa, chiede al direttore di non essere inviata al carcere, e comincia a partecipare alle attività dei gruppi. L'amicizia con Andrea, ragazza tossicodipendente con cui divide la stanza e l'incontro con Eddie, ex giocatore alla fine della carriera le fanno miracolosamente capire che "è stanca di vivere nelle favole, ora vuole vivere la vita vera". Psicologicamente il film è fallimentare: Gwen beve molto, probabilmente perché suo padre ha abbandonato la famiglia quando lei era solo una bambina, o forse perché le uniche immagini che ha di sua madre sono quelle di una donna sempre fuori di sé, sdraiata per terra priva di sensi, totalmente ubriaca (e le sequenze con fotografia sgranata e con macchina in continuo movimento che ricordano il passato della ragazza sono raggelanti). Ha un rapporto conflittuale con la sorella Lily cui ha rovinato pesantemente il giorno del matrimonio: Lily rinfaccia a Gwen la sua perenne aria da vittima, "come se la vita avesse trattato solo lei ingiustamente: ha approfittato della sua situazione traendo compiacimento dalle sue stronzate", per poi di botto, perdonarla e manifestarle tutto il suo amore in una riconciliazione posticcia e del tutto scontata. Come scontata è la figura di Andrea, la pallida compagna di stanza: anche lo spettatore più sprovveduto capisce fin dall'inizio che la fragilità e l'insicurezza della ragazza, fan accanita della soap opera che monopolizza l'attenzione della clinica e che permette l'unico momento davvero esilaranre e riuscito del film - la rappresentazione ironica e parodiata di un episodio del celebre programma, improvvisata dagli ospiti della clinica - la porteranno inevitabilmente al suicidio. L'unica sorpresa è data dal fatto che tra Gwen e Eddie non nasca una "tenera storia d'amore", anche se allo spettatore non vengono risparmiati dialoghi che vorrebbero essere simpatici "Magari vorresti sniffarmi?" dice Gwen a Eddie in un momento di complicità o ridicole scenate di gelosia (prima da parte di Jasper che, casualmente, scopre Gwen e Eddie alle prese con una chiacchierata romantica, poi da parte di Gwen che, a sua volta, sempre casualmente, scopre Eddie "impegnato" con una ragazza). E' come se il film a sua volta diventasse la tipica soap americana che viene presa come veicolo narrativo dell'intera vicenda, in un intreccio, neanche questo troppo originale e riuscito, tra realtà e finzione, comicità e tragedia. E questa indecisione tra commedia pura e semplice ed inchiesta psicologica certo appesantisce ulteriormente il film, incapace di scegliere quale strada prendere: come commedia è pesante e noiosa, come dramma è pura fantasia, edificante e sbalestrato. Il centro di recupero infatti sembra più che altro un campeggio estivo per boy scout fra giochi, canti, gite e riunioni di autocoscienza. Non si stenta a credere che la maggior parte dei pazienti, una volta usciti, ricada nel vizio: chi glielo fa fare di abbandonare quel posto quasi paradisiaco per la realtà. E anche questa contrapposizione schematica e semplicistica tra le locations di una New York turbolenta, sofisticata ed aggressiva e la campagna fitta di boschi, rilievi e vedute spettacolari in cui è collocato il centro di recupero, per evidenziare il distacco psicologico ed ambientale tra le due situazioni (Gwen prima della cura/Gwen dopo e durante la cura) suona fasulla e manichea. Come se non bastasse poi, nel finale, la Thomas (le cui intenzioni erano ben altre, e cioè realizzare una commedia dark in stile "Mash"; a suo dire "E' simile l'umorismo che c'è tra militari e dottori: in questa storia le menzogne e il cinismo di Gwen sono una costante fonte di divertimento"...non si sa per chi però) ricordandosi disgraziatamente di essere stata anche la regista dell'altrettanto orrendo "Il Dottor Dolittle", inserisce un'imbarazzante sequenza di ippoterapia (Gwen, mettendo in pratica un insegnamento ricevuto in clinica, alza lo zoccolo di un cavallo, che sempre casualmente, trova fuori da un ristorante di New York in pieno centro, come se fossimo nel selvaggio West) grazie alla quale la protagonista, ridimensionando il suo io e la sua vuota arroganza, ritrova una dimensione più umana, abbandona il fidanzato disgraziato sempre propenso a tentarla con nuove droghe e con i vecchi amici e riprende a camminare sorridente tra la folla pronta per ricominciare una nuova vita più vera e serena: del resto si intitolava proprio "Voglia di ricominciare" l'altra pseudo e banale commedia drammatico-sentimentale con protagonista la Bullock. Fosse così facile.. Sprecato tutto il cast che annovera Steve Buscami, nei panni del direttore della clinica, a cui si deve l'unica battuta intelligente e credibile del film, rivolta ai pazienti ("Una volta che uscite dalla clinica compratevi una pianta e vedete se dopo una anno siete riusciti a mantenerla in vita; dopo di che prendete anche un cucciolo e vedete se a sua volta riuscite a tenerlo in vita per un anno; se dopo due anni la pianta ed il cucciolo sono ancora vivi, solo allora potrete iniziare una seria relazione sentimentale), sacrificato Viggo Mortensen, praticamente invisibili le altrimenti brave Marie Jean Baptiste (splendida interprete di "Segreti e bugie") e Diane Ladd.
Voto: 2

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