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Killers of the Flower Moon

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Killers of the Flower Moon

di kfactor
9 stelle

Scorsese, DiCaprio e De Niro che insegnano recitazione ed un lungo ma dinamico racconto nelle pieghe dell'America peggiore. Serve altro?

Il cinema è un universo meraviglioso. E’ quel posto dove puoi sederti e viaggiare in luoghi sempre diversi a seconda del narratore che li racconta. A volte succede che quel narratore sia uno dei migliori registi viventi e che a 80 anni compiuti abbia scoperto una nuova metrica per realizzare i suoi lavori. “Voglio raccontare delle storie, ma il tempo non c’è più” è la malinconica autoanalisi di Martin Scorsese, durante una recente intervista per il suo nuovo film, Killers of Flowers Moon. Raccontare, narrare, prendersi il tempo per esplorare una storia e divulgarla: è proprio questo che, in primis, colpisce della sua ultima fatica. Lo stile spesso ipertrofico di Scorsese, dinamico e adrenalinico, lascia lo spazio ad una regia più composta, che si prende il tempo di un campo lungo sul paesaggio, che si sofferma sui primi piani di sguardi che non necessitano dialoghi, che si permette di stare ad ascoltare un temporale (“Stai fermo, dobbiamo prenderci un momento” dice Molly ad Ernest durante la loro prima cena mentre fuori imperversa un temporale). Tutta questa narrazione passa attraverso un gioco di generi che Scorsese mescola abilmente senza che si infastidiscano a vicenda, dal western al gangster movie, dal film storico a quello civile, dal melodramma alla commedia nera. Supportato dalla splendida fotografia di Rodrigo Pietro, Killers of the flower moon, diventa un’anti epica sulle radici del capitalismo statunitense, bagnate dal sangue e dal razzismo (fortissima la relazione tra gli spietati abitanti di Fairfax e il Ku klux klan, come quella tra gli indiani Osage e i neri di Tulsa), dall’avidità e dall’invidia, attraverso un percorso straziante, che chiude con una sequenza semplicemente geniale, che solo un maestro del cinema come il regista Newyorkese  può concepire, capace di spiazzare lo spettatore attraverso un numero di finta commedia che ha il compito di alzare di un ulteriore livello il carico drammatico. Nel mezzo di tutto questo, Lily Gladstone che regala un personaggio che racchiude tutta la rabbia di un popolo ma anche la sua impotenza nei confronti di un male incomprensibile nonostante la forza che l’attraversa, e due attori fantastici, alle prese con ruoli scomodi e complessi: dove da una parte il male cinico e calcolato, vestito da benefattore, di De Niro esalta la sua istrionica capacità di indossare maschere diverse, dall’altra un DiCaprio in formato Brando dona fisico ed espressioni ad un uomo mediocre, poco intelligente e mosso più dal bisogno dei suoi vizi che dai suoi sentimenti. Insieme, sulla scena, creano momenti di rara perfezione, lasciando sulla pellicola un insegnamento che resterà nella storia del cinema. 

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