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Prima la musica poi le parole

Regia di Fulvio Wetzl vedi scheda film

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La recensione su Prima la musica poi le parole

di FulvioWetzl
10 stelle

Sabbia canta, accarezzo ruzzolare, tocco cometa, chiamo di mentire". Si esprime così, e in modo anche più bizzarro, il piccolo Giovanni (Andrej Chalimon, l'indimenticabile Kolja) cocco di papà Lanfranco (Jacques Perrin) con il quale vive in una meravigliosa villa nel cuore della Toscana. Prima dei titoli di testa abbiamo visto Lanfranco giocare con i jeaux d'eau nel parco con la giovane moglie (Amanda Sandrelli), quindi atrocemente litigarci, con lei incinta. Lo stacco successivo ci mostra Giovanni alle prese con gli zampilli, mentre grida spensierato "Lanfranco, la volpe!". Di sua madre nemmeno l'ombra, mentre il babbo conversa con il medesimo enigmatico linguaggio, perlopiù scrivendo sul computer, che padre e figlio chiamano "musica" Inizia così Prima la musica poi le parole, il film di Fulvio Wetzl che finalmente esce in Italia, dopo aver conquistato il pubblico dei festival di mezzo mondo. Un incipit che è una cadenza d'inganno di una sinfonica suite di emozioni, quasi come le note del folgorante quartetto di Janacek "Pagine intime", non casualmente eseguito nel corso del film. Ma improvvisamente il babbo muore e Giovanni decide di avventurarsi per il vasto mondo, varcando il cancello del suo paradiso. In ciò simile a Pinocchio, dal quale differisce per uno slittamento di anomalia: burattinesco e legnoso è infatti il suo linguaggio. Munito di uno strano abbecedario (un campionario di colori) anche lui va verso la scuola senza arrivarci. Sulla strada lo raccoglie infatti un pulmino scolastico. E qui cominciano i guai. Non accettato in classe, si aggira per le strade; la fame gli suggerisce di addentare una mela rubata dalla cesta di un ortolano-Mangiafoco (Carlo Monni) che lo agguanta. Rendendosi conto del suo strano eloquio lo affida alla sanità anziché alla giustizia. Da qui il film si tinge di giallo e thriller, pur su un impianto squisitamente gnoseologico o meglio di filosofia del linguaggio. Entrano in gioco una dottoressa dal volto umano (Marina, Anna Bonaiuto, bravissima) e un'assistente sociale Elena,  Barbara Enrichi, che ancora una volta conferma la sua poliedricità. Che devono scontrarsi con i metodi "scientifici" del luminare di turno . Una diatriba che convince Marina a "rapire" Giovanni dalla clinica per sottrarlo a radiografie, prelievi, ecografie ed altre crudeltà psicologiche. "L'esperimento è riuscito, il paziente è morto": così si sfoga con la sua unica complice Elena la disperata dottoressa, senza tetto né legge alla ricerca della comunicazione impossibile con il bambino. Una fuga che è anche poetico viaggio alla ricerca del sé, una meditazione filmata in sequenze di smagliante concentrazione (tra le tante la visita al museo di Volterra, il muro del manicomio graffito da un malato con la fibbia della cintura) che come un perfetto gioco ad incastro portano alla soluzione e scioglimento definitivo; che prende lo spettatore alla gola, nel senso del magone, ma senza spargimento di lacrime. Anzi conducendolo a serene riflessioni "non euclidee", piane come il terso piano sequenza finale. La morale? Una volta tanto l'esperimento è riuscito; a morire però non è il paziente ma lo sperimentatore. Il film, che nella primeva sceneggiatura si chiamava appunto Geometria non euclidea - Syntax Error , vinse il premio Città di Milano nel lontano '91. Passato per altre quattro stesure prima di diventare pellicola è un miracolo di scrittura e intelligenza

 

Sabbia canta, accarezzo ruzzolare, tocco cometa, chiamo di mentire". Si esprime così, e in modo anche più bizzarro, il piccolo Giovanni (Andrej Chalimon, l'indimenticabile Kolja) cocco di papà Lanfranco (Jacques Perrin) con il quale vive in una meravigliosa villa nel cuore della Toscana. Prima dei titoli di testa abbiamo visto Lanfranco giocare con i jeaux d'eau nel parco con la giovane moglie (Amanda Sandrelli), quindi atrocemente litigarci, con lei incinta. Lo stacco successivo ci mostra Giovanni alle prese con gli zampilli, mentre grida spensierato "Lanfranco, la volpe!". Di sua madre nemmeno l'ombra, mentre il babbo conversa con il medesimo enigmatico linguaggio, perlopiù scrivendo sul computer, che padre e figlio chiamano "musica" Inizia così Prima la musica poi le parole, il film di Fulvio Wetzl che finalmente esce in Italia, dopo aver conquistato il pubblico dei festival di mezzo mondo. Un incipit che è una cadenza d'inganno di una sinfonica suite di emozioni, quasi come le note del folgorante quartetto di Janacek "Pagine intime", non casualmente eseguito nel corso del film. Ma improvvisamente il babbo muore e Giovanni decide di avventurarsi per il vasto mondo, varcando il cancello del suo paradiso. In ciò simile a Pinocchio, dal quale differisce per uno slittamento di anomalia: burattinesco e legnoso è infatti il suo linguaggio. Munito di uno strano abbecedario (un campionario di colori) anche lui va verso la scuola senza arrivarci. Sulla strada lo raccoglie infatti un pulmino scolastico. E qui cominciano i guai. Non accettato in classe, si aggira per le strade; la fame gli suggerisce di addentare una mela rubata dalla cesta di un ortolano-Mangiafoco (Carlo Monni) che lo agguanta. Rendendosi conto del suo strano eloquio lo affida alla sanità anziché alla giustizia. Da qui il film si tinge di giallo e thriller, pur su un impianto squisitamente gnoseologico o meglio di filosofia del linguaggio. Entrano in gioco una dottoressa dal volto umano (Marina, Anna Bonaiuto, bravissima) e un'assistente sociale Elena,  Barbara Enrichi, che ancora una volta conferma la sua poliedricità. Che devono scontrarsi con i metodi "scientifici" del luminare di turno . Una diatriba che convince Marina a "rapire" Giovanni dalla clinica per sottrarlo a radiografie, prelievi, ecografie ed altre crudeltà psicologiche. "L'esperimento è riuscito, il paziente è morto": così si sfoga con la sua unica complice Elena la disperata dottoressa, senza tetto né legge alla ricerca della comunicazione impossibile con il bambino. Una fuga che è anche poetico viaggio alla ricerca del sé, una meditazione filmata in sequenze di smagliante concentrazione (tra le tante la visita al museo di Volterra, il muro del manicomio graffito da un malato con la fibbia della cintura) che come un perfetto gioco ad incastro portano alla soluzione e scioglimento definitivo; che prende lo spettatore alla gola, nel senso del magone, ma senza spargimento di lacrime. Anzi conducendolo a serene riflessioni "non euclidee", piane come il terso piano sequenza finale. La morale? Una volta tanto l'esperimento è riuscito; a morire però non è il paziente ma lo sperimentatore. Il film, che nella primeva sceneggiatura si chiamava appunto Geometria non euclidea - Syntax Error , vinse il premio Città di Milano nel lontano '91. Passato per altre quattro stesure prima di diventare pellicola è un miracolo di scrittura e intelligenza

Fabio Norcini SCANNER

Fabio Norcini SCANNER

 

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